Tregua in Libano: se ne riparlerà con Trump
L’accordo sul cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele alla fine è arrivato. Il Libano aveva accolto l’ultima bozza avanzata dagli Stati Uniti per conto di Israele nella quale erano state inserite le sue richieste volte a conservare la propria sovranità, eliminando cioè dal tavolo la pretesa israeliana di avere mano libera di poter proseguire la sua campagna contro Hezbollah anche dopo la fine delle ostilità. Ieri il placet di Netanyahu.
L’intesa prevede l’attuazione della risoluzione Onu 1701 del 2006: Hezbollah si ritirerà dalla regione di confine con Israele arretrando oltre il fiume Litani, a 20 Km dallo stesso, e l’area sarà presidiata dall’esercito regolare libanese. Israele ritirerà le forze occupanti e non avrà mano libera contro Hezbollah, ma dovrà segnalare eventuali violazioni degli accordi a un organismo di monitoraggio guidato dagli Stati Uniti.
L’intesa ha una durata di 60 giorni, cioè fino all’insediamento di Trump, dopo di che si vedrà se lo stallo produrrà una pace duratura, tacita o formalizzata, o si riapriranno le ostilità.
Come annota al-Akhbar, si è tornati alla risoluzione con la quale si era chiusa la guerra libanese del 2006, mai attuata perché Hezbollah non si era ritirato dal confine e Israele aveva continuato a le operazioni contro il Paese limitrofo.
Sogni infranti (per ora)
Da questo punto di vista, uno scacco per Israele e per gli Stati Uniti, che hanno dovuto riporre nel cassetto, almeno in via provvisoria, tanti sogni. Anzitutto quello di attuare un regime-change in Libano che estromettesse Hezbollah dal potere per consegnarlo a figure politiche più attente ai loro desiderata.
Un’opzione perseguita con intensità dall’amministrazione Biden, sia attraverso l’intenso lavoro diplomatico dell’ambasciatrice statunitense a Beirut Lisa Johnson (Israel Ayom), sia attraverso le pressioni indebite dell’inviato per il Libano Amos Hochstein e del Segretario di Stato Tony Blinken (Washington Post).
Inoltre, Israele ha dovuto recedere dalla sua pretesa di prendere il controllo della regione libanese che dal suo confine giunge al Litani, sogno di tanti strateghi israeliani per il quali tale assetto garantirebbe maggiore sicurezza al Paese, oltre che nuove risorse, anzitutto l’acqua, che in quella zona è preziosa davvero.
Né è stata conseguita quella vittoria schiacciante su Hezbollah, la sua eliminazione dalla regione, che tanti in Israele hanno brandito. Si infrangono, inoltre, i sogni dei tanti folli messianici che avevano spinto per conquistare tale regione perché appartenente per diritto divino alla Grande Israele.
Svapora, infine, l’idea sottesa a questa guerra, di farne da grimaldello per avviare un processo per rimodellare il Medio oriente, brandita da Netanyahu e da liberal e neocon americani. Se ne riparlerà, semmai, con la presidenza Trump, dove quel semmai cela tante incognite.
Detto questo, Netanyahu può vantarsi agli occhi dell’opinione pubblica israeliana di aver degradato la forza militare di Hezbollah, di avene ucciso i dirigenti, anzitutto il leader carismatico Hassan Nasrallah, di aver scacciato le milizie sciite dai confini israeliani e di aver consentito in tal modo ai 60mila coloni di tornare alle case dalle quali erano dovuti fuggire.
A margine, e neanche tanto, non va dimenticato che Hezbollah ha dovuto rinunciare al motivo di fondo per il quale si era attivato dopo anni di attrito, quello di far pressione su Tel Aviv perché ponesse fine alla guerra di Gaza. L’intesa non prevede tale conseguenza (se previsto come clausola segreta non è dato saperlo, almeno al momento: l’editoriale di Haaretz odierno afferma che tale passo ora è un “imperativo morale”, Hamas si dice “pronto a una tregua“, ma tutto resta sospeso).
Spinte americane
Tutto ciò potrebbe essere brandito come un grande successo, se non fosse che in questi 14 mesi di conflitto, e soprattutto negli ultimi due quando lo scontro di attrito è diventato guerra aperta, in Israele non fossero dilagate le illusioni descritte in precedenza, che si sono scontrate con la resistenza di Hezbollah sul campo e con i danni subiti dal Paese per la mobilitazione prolungata delle riserve e quelli conseguenti alla pioggia di razzi (villaggi e città rese fantasmatiche, produzione defalcata etc).
Per questo il cessate il fuoco è stato accolto in Israele con un misto di sollievo, scetticismo e rabbia, quest’ultima in particolare espressa dai coloni e dai partiti di ultra-destra, che però, al contrario di quanto brandito per un eventuale cessate il fuoco a Gaza, non hanno minacciato di far cadere il governo.
Per far fronte a tali critiche, Netanyahu ha affermato di esser stato costretto a cedere alle pressioni americane, che l’avrebbero minacciato, nel caso in cui avesse nuovamente fatto saltare l’intesa, di fermare il flusso di armi verso Tel Aviv e che non avrebbero più difeso Israele in sede Onu con il loro diritto di veto, più volte abusato per bocciare le risoluzioni che chiedevano il cessate il fuoco a Gaza.
Retroscena negato dall’amministrazione Biden perché paleserebbe la sua complicità negli orrori di Gaza, per la quale non ha usato un’analoga determinazione (anche se, nel raccontare tale retroscena, un articolo di Haaretz spiega che gli Usa starebbero usando analoghe minacce per fermare, finalmente, la guerra di Gaza; ma lo scetticismo è d’obbligo).
Questione ultra-ortodossa
A convincere Netanyahu a chiudere la guerra libanese è stato più di altro il logoramento dell’esercito, allarme che aveva convinto gli alti gradi delle forze armate a far pressioni sempre più forti in tal senso. Non è solo una questione militare, spiegava Amos Harel su Haaretz, perché tale logoramento rendeva sempre più inderogabile l’ampliamento della leva agli ultra-ortodossi, che ne sono esentati e che hanno difeso con ferocia tale privilegio.
Un problema politico cruciale, dal momento che i partiti ultra-ortodossi che sostengono il governo difendono a spada tratta tale esenzione, minacciando il premier di togliergli la fiducia. Netanyahu non poteva permetterselo. Peraltro, come rileva l’editoriale del Jerusalem Post, l’accordo era improcrastinabile anche perché “combattere su due fronti all’infinito non è né sostenibile né strategico”.
Tregua, dunque, almeno fino alla presidenza di Trump, e forse oltre, con il presidente eletto che ha spinto non poco in tale direzione (Jerusalem Post). In questo interregno resta l’abominio di Gaza, sul quale, come scrive Amos Harel, si accenderà la prossima controversia all’interno di Israele tra “quanti chiedono la vittoria totale su Hamas e sostengono di fatto una guerra senza fine […] e quanti diranno giustamente che se Israele ha posto fine alla guerra del Nord senza sconfiggere completamente il nemico più forte, può certamente permettersi di raggiungere un accordo anche a Gaza”.
Il mondo potrebbe aiutare quanti stanno spingendo per il cessate il fuoco anche nella Striscia, ma è da vedere se l’America si ripeterà. Nel caso del Libano ci sono di mezzo tanti interessi, tra cui quello di evitare problemi con la Francia, per la quale il Libano resta vitale e che tanto ha spinto per la tregua, e con i Paesi arabo sunniti, legati a doppio filo con l’ambito sunnita del Paese dei cedri. La Striscia è altra cosa, purtroppo.