Trump parla al Congresso. La resa di Zelensky e di Londra

Trump rivendica i suoi successi, veri o asseriti che siano, nel discorso al Congresso americano (simpatiche le scoperte degli sprechi scoperti dal Doge a trazione Musk). E ha prospettato le magnifiche sorti e progressive dell’Impero prossimo venturo, sciorinando di investimenti, dazi, ritorno all’ovile di Panama e accaparramento, “in un modo o nell’altro” della Groenlandia (dimenticandosi dell’acquisizione del Canada, ribadita più volte: significativo).
Il discorso al Congresso
Ma non c’era bisogno di un discorso al mondo, tramite Congresso Usa, per lodare quanto fatto e ribadire cose già dette. L’impressione netta è che quando ha dato l’annuncio che avrebbe tenuto il discorso pensava di dire a ben altro e relativo alla clamorosa lite in mondovisione con Zelensky, che ha visto gli alleati europei pronti a spalleggiare il presidente ucraino e a offrire la propria ricetta per la “loro” pace ucraina, cioè la terza guerra mondiale (vedi conclusione).
Crisi che invece certamente meritava cotanto proscenio, perché l’America di Trump poteva apparire isolata e in ambasce e perché doveva spiegare la reazione tanto dura e immediata alle provocazioni di Zelensky (vedi Piccolenote). Per nulla intimidito, Trump si accingeva a reagire anche verbalmente, e a suo modo, a quanti gli avevano teso la trappola e pensavano di averlo messo in un angolo.
I procuratori di Zelensky non si aspettavano una reazione tanto immediata e dura, convinte, le conventicole europee – dai loro padroni liberal-neocon d’oltreoceano e dagli astuti britannici – che Trump non si sarebbe spinto a rompere in maniera tanto plateale le alleanze consolidate con Ucraina ed Europa.
Soprattutto in costanza di una narrazione unanime di politici e media mainstream che faceva dell’inquilino della Casa Bianca un improvvido bullo che sta mettendo a rischio la democrazia occidentale in totale sintonia col dittatore russo e, allo stesso tempo, faceva del presidente ucraino un alfiere della libertà vittima di un proditorio agguato.
Non hanno tenuto conto della realtà, come peraltro dimostra ampiamente la loro irrevocabile quanto surreale ossessione per la sconfitta strategica della Russia. E la realtà è che Trump non è solo l’ennesimo presidente degli Stati Uniti, cioè, secondo essi, un pazzo autocrate, ma pur sempre costretto dal ruolo che gli conferisce lo scettro imperiale e il loro contropotere.
Trump è un rivoluzionario – anche se la parola può apparire stridente con il personaggio, così è. A capo di una rivoluzione determinata a rompere l’apparato politico-finanziario-militare che ha preso il potere subito dopo l’attentato alle Torri gemelle e si è consolidato negli anni della guerra al Terrore e delle guerre infinite. E tale momento rivoluzionario non riconosce come irrevocabili i vincoli pregressi, né di alleanze né di affiliazione.
Una determinazione che deve essere portata fino in fondo, pur con i compromessi del caso, perché la via intrapresa non conosce ritorno: se anche Trump e Musk si dimettessero domani, sanno benissimo che non sopravviverebbero un giorno solo da privati cittadini. Da cui la guerra alzo zero al sistema (come dimostra, ad esempio il camion di documenti sui clienti del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein inviato dall’FBI, dopo vari intralci, al ministero della Difesa Usa. Un’arma di distruzione di massa…).
Il dietrofront dei congiurati
Trump e Musk hanno reagito subito, perché il tempo è cruciale, e in maniera durissima. Non solo tagliando gli aiuti all’Ucraina, senza i quali durerà pochi giorni, ma inviando segnali incontrovertibili al Regno Unito: sia annullando gli attacchi informatici alla Russia, portati generalmente insieme agli hacker inglesi (vedi Piccolenote), sia inviando una direttiva che proibiva all’intelligence britannica di condividere con Kiev le informazioni made in Usa (Daily Mail).
Probabile che a tali segnali se ne siano aggiunti altri, più riservati. Così è arrivata la resa di Zelensky che si è rimangiato tutto pubblicamente, come dettagliato da Trump nel suo discorso al Congresso americano, discorso che evidentemente non poteva annullare, perché l’annullamento sarebbe stato raccontato dai suoi avversari come un segno di debolezza, ma nel quale ha parlato di altro, avendo vinto, almeno per ora, la partita.
Vittoria confermata dal dietrofront pubblico dell’Europa: dopo che la portavoce del governo aveva annunciato una prossima visita negli Usa di Macron e Starmer, con al seguito Zelensky – viaggio peraltro da giorni annunciato dai media – è arrivata la smentita dell’Eliseo.
E oggi l’annuncio del ministero della Difesa teutonico, giunto dopo che Berlino si era aggregata al carro dei dioscuri delle guerre infinite, nel quale si comunica che i germanici arsenali hanno “raggiunto il limite massimo” circa il trasferimento di armi all’Ucraina.
Starmer e Macron si preparavano a portare la loro ricetta a Trump, sicuri che sarebbero stati accolti come salvatori della patria, e sono rimasti con le pive nel sacco. Quando alla ricetta, tutto era centrato sulle forze di peacekeeping britanniche (con supporto francese e forse europeo).
Forze che in realtà non esistono che sulla carta, come dettaglia fin nei minimi particolari un articolo del National Interest, che conclude: “Il primo ministro Keir Starmer sa tutto questo, ovviamente. Quindi cosa sta realmente progettando di fare con una forza così misera? Di nuovo, il piano ovvio è di far sì che i russi sparino qualche colpo alle truppe o ai blindati, giustificando così la richiesta di Londra di invocare l’articolo V. Per evitare ciò, Trump deve fare una dichiarazione immediata che sconfessi il piano britannico e chiarisca che gli Stati Uniti non aiuteranno gli inglesi”. Non lo ha fatto in pubblico, probabile che lo abbia fatto in via riservata.
Non si rassegneranno: la partita contro il partito della guerre infinite durerà tempo (di oggi il ridicolo allarme di Kiev sul prossimo dispiegamento di forze cinesi a supporto di Mosca…). Proprio sulle guerre infinite, un cenno del discorso di Trump, tanto ignorato quanto significativo: riferendosi al “disastroso ritiro” dall’Afghanistan, criticato aspramente, ha puntualizzato che la cosa grave “non era che [le forze americane] si stessero ritirando, ma il modo in cui si ritiravano“. Cenno che va letto a tutto tondo.