Trump e Netanyahu
Tempo di lettura: 2 minutiEditoriale del Corriere della Sera del 15 febbraio, a firma Franco Venturini, dedicato all’imminente incontro tra Netanyahu e Trump. Una rimpatriata di vecchi amici, dal momento che il premier israeliano è stato un fervido sostenitore dell’attuale presidente.
Secondo Venturini il primo punto del dialogo tra i due sarà quello degli insediamenti, tema particolarmente caldo dopo il «condono» di 4.000 alloggi ebraici in Cisgiordania votato dal parlamento israeliano (vedi anche nota precedente).
Netanyahu, che pure si muove in un orizzonte che nega la possibilità della nascita di uno Stato palestinese, secondo Venturini era contrario a quel condono, che potrebbe affossare del tutto tale prospettiva. Per Netanyahu, infatti, si tratta di una «inutile e dannosa fuga in avanti».
Trump aveva preso le distanze da quell’iniziativa, dichiarando che «gli insediamenti non aiutano» la pace. Secondo Venturini, Trump ora dovrebbe «andare appena oltre» quell’affermazione. In tal modo «raggiungerebbe il doppio scopo di affermare la verità e di coprire per quanto possibile le spalle del suo ospite».
Più intricato il tema dell’accordo sul nucleare iraniano, da sempre contestato da Netanyahu e che Trump sembra intenzionato a demolire. Se è vero che il premier israeliano non avrebbe che da «fregarsi le mani» per questa prospettiva, Venturini mette in guardia dallo «scrigno di complicazioni» che è il Medio Oriente.
Davvero tante le variabili in campo, che potrebbero trasformare un conflitto troppo acceso Washington-Teheran da “opportunità” a pericolo per Israele. Potrebbe infatti innescare una guerra contro hezbollah «in territorio libanese» e favorire la vittoria degli «estremisti» nelle ormai prossime elezioni iraniane (e altro).
Insomma, il dibattito su cosa augurarsi faccia Trump in rapporto a Teheran pare stia «salendo di tono, in Israele. E la sua traduzione politica è che il Trump anti-Iran va bene, ma senza esagerare per non diventare controproducente».
Resta il nodo del trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, ipotesi che aveva preso corpo durante la campagna elettorale americana e ora ferma per ulteriori riflessioni. Situazione che, secondo Venturini, dovrebbe persistere.
Nota a margine. Se abbiamo dato grande risalto all’articolo di Venturini è perché ci sembra permeato di certo realismo e pragmatismo. Parola che, peraltro, chiude l’editoriale, e usata in riferimento all’atteggiamento che sembra dover caratterizzare la nuova amministrazione americana riguardo Israele.
Fuor di metafora: il conflitto che ha opposto Stati Uniti e Israele è ormai superato con la vittoria di Netanyahu su Obama, fiero propugnatore di prospettive altre da quelle del premier israeliano.
Quest’ultimo però a sua volta è cambiato, diventando meno assertivo e più pragmatico dato il nuovo scenario mediorientale, l’evoluzione del dibattito riguardo la questione palestinese e, infine, il quadro politico interno, che per la prima volta lo vede incalzato in maniera seria anche da destra oltre che da sinistra. Al nuovo Netanyahu servirebbe un Trump altrettanto pragmatico.
Tale prospettiva farebbe «contento» anche il mondo, spiega Venturini con una chiosa condivisibile. Una politica estera americana in Medio oriente votata al pragmatismo piuttosto che consegnata alla follia dei neoconservatori, che tanti danni ha fatto al mondo intero, non può che rallegrare.
Il problema è che nello «»scrigno di complicazioni» che è il Medio Oriente, a volte certo pragmatismo e certa follia si intrecciano. È un mistero difficile da dipanare. Possiamo solo attendere l’evoluzione degli eventi e sperare.