Trump: orgoglioso per non aver iniziato alcuna guerra
Tempo di lettura: 4 minutiUltimo giorno prima delle elezioni Usa. Domani si vota, ma in alcuni Stati i voti inviati via posta potranno arrivare anche giorni dopo, con tempistica allungata e travagliata.
In attesa, da rilevare la dichiarazione di Trump: “Sono orgoglioso di essere il primo presidente dopo decenni a non aver iniziato nessuna nuova guerra”. Vero, egli è riuscito a fare, nei limiti del possibile, quel che a Obama non riuscì e che pure gli era valso un Oscar per la pace.
Trump ha ereditato le guerre infinite, trovandosi l’esercito americano impegnato in Afghanistan, Libia e Siria, oltre che a fianco dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen. E di fatto ha ridotto, e di molto, l’impegno in tali teatri di guerra.
Il disimpegno globale
L’impegno in Libia è svaporato. In Siria ha più volte cercato di ritirare le truppe, trovando fiera opposizione tra i falchi, che l’hanno costretto a lasciare sul campo una forza residuale (presenza comunque nefasta, perché suggella la sottrazione di parte del territorio siriano e di tutto il suo petrolio).
In Afghanistan, teatro di guerra meno di interesse per i falchi, è riuscito a fare addirittura un accordo di pace con i talebani, che potrebbe portare a un disimpegno quasi completo delle truppe.
Inoltre, ha posto fine alla guerra dei droni che contraddistinse l’era Obama nell’approccio al rebus afghano, che ha causato uno stillicidio di vite innocenti, passato sottotraccia, ma non per questo meno criminale.
Non solo, ha tentato in tutti i modi di concludere un accordo di pace con la Corea del Nord, con un impegno che è stato bombardato con successo dai falchi, ma che potrebbe essere ripreso più agevolmente di altri in caso di rielezione.
Certo, c’è l’impegno in Yemen, l’unica vera guerra proseguita durante il suo mandato, ma sul punto non poteva far molto, stante l’irrevocabilità dei sauditi, che sperava di piegare con una manovra aggirante, cioè con un nuovo accordo con Teheran.
Le guerre evitate
Proprio il dossier Iran resta una macchia oscura del suo mandato, avendo revocato l’accordo sul nucleare raggiunto da Obama e aprendo un contenzioso ad alto rischio.
Ma tale passo era chiesto a gran voce da Netanyahu, voce che egli non poteva ignorare, in concerto con i falchi Usa. Ha tentato di resistere, prorogando per due volte l’accordo, ma si è dovuto piegare sotto la sferza del Russiagate.
Infatti, per ottenere l’appoggio dei falchi repubblicani, indispensabile a ottenere i voti necessari a sventare l’impeachement, ha dovuto cedere.
Detto questo, quando tali ambiti hanno cercato di spingerlo a una guerra aperta contro Teheran, ha resistito. Dopo l’abbattimento di un drone Usa sui cieli iraniani, sembrava impossibile fermare tale spinta, ma Trump, all’ultimo minuto, ha negato il suo appoggio.
Qualcosa di simile è accaduto dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli Usa, crimine che Trump ha subìto più che voluto, come dimostra anche lo sforzo diplomatico successivo, quando i suoi inviati chiesero all’Iran di dare una risposta contenuta per evitare che a sua volta l’America fosse costretta alla guerra.
Come accadde in Siria nel 2018, dopo un asserito attacco chimico attribuito ad Assad (ennesimo pretesto creato ad arte per forzare l’attacco Usa), quando l’amministrazione Trump si accordò con Mosca per portare un raid simbolico e isolato.
I regime-change frenati
Non solo le guerre vere e proprie. Trump ha frenato le spinte per realizzare regime-change in giro per il mondo, cosa che avvenne sotto l’amministrazione Obama in Egitto, Tunisia e altrove.
Inoltre, ha dato un freno ai regime-change pregressi, come nel caso della conflittualità ucraina. Ed è evidente che l’attuale spinta per un regime-change in Bielorussia è meno efficace per la palese assenza americana, che lascia l’Europa sola a tentare di forzare la mano.
Di fatto, l’unico regime-change registrato sotto la sua guida è stato quello boliviano, che però è stato ribaltato di recente con il ritorno al potere del Mas di Evo Morales (e anche qui per un’evidente assenza Usa), mentre quello venezuelano ha visto Trump porre un freno ai suoi falchi.
Discorso diverso va fatto per il conflitto israelo-palestinese, che ha visto Trump soccombere ai desiderata di Netanyahu, né poteva essere diversamente. Possibile che il filo del dialogo con i palestinesi sia ripristinato con Biden, ma di certo la normalizzazione tra arabi sunniti e Israele, ormai irrevocabile, cambia tutto, date le inevitabili ricadute sul rapporto tra israeliani e palestinesi.
Le variabili nuove
Né va addossata all’amministrazione Trump la responsabilità dell’acceso scontro con la Cina: in realtà egli intendeva trovare un accordo con Xi Jinping, ma l’America, sia l’apparato militar industriale, sia l’imprenditoria e la tecno-finanza, vuole il redde rationem.
Ciò rende quasi impossibile frenare tale spinta, destinata a proseguire con un’eventuale amministrazione Biden, che a differenza di Trump tenterà di coinvolgere in maniera “più convincente” l’Europa nella manovra di accerchiamento.
Trump avrebbe potuto lasciare il mondo un po’ meno in disordine di quando ha preso il potere, ma la pandemia e il confronto con la Cina hanno travolto tutto, aprendo nuove prospettive destabilizzanti.
Ma è probabile che la vittoria di Biden, anche al di là delle sue intenzioni, ripristinerebbe il volto più aggressivo dell’Impero, con un’aggressività accentuata dal terreno perso in questi anni. Vedremo.