Uccidere Arafat
Tempo di lettura: 4 minutiAvvertenza ai lettori. Nota alquanto lunga. ma va bene così. Val la pena darle uno spazio adeguato.
Uccidere Arafat: la storia di come per decenni gli israeliani abbiano tentato di assassinare il leader palestinese è stata pubblicata da Ronen Bergman il 23 gennaio scorso sul New York Times, grazie alle testimonianze di «centinaia» di ufficiali dell’intelligence e della Difesa israeliana e allo studio di «migliaia» di documenti riservati.
È una storia nella quale emerge il «dilemma» che ha travagliato le autorità israeliane, come riporta Bergman, ovvero «lo scontro violento e talvolta inconciliabile tra i principi fondamentali della democrazia e l’istinto a difendere una nazione […]. Può una nazione usare i metodi propri del terrorismo? Può recar danno a dei civili innocenti?».
Il duro conflitto con i palestinesi aveva indotto l’intelligence israeliana a convincersi «che assassinare il leader dell’Olp avrebbe risolto l’intero problema palestinese», spiega la ricostruzione.
Tante le operazioni condotte in tal senso. Dalle improvvise sortite nelle case in cui alloggiava il leader palestinese, al bombardamento aereo delle stesse. Ma il Mossad o l’aviazione arrivavano «sempre un minuto prima o uno dopo» il suo passaggio.
Altre volte si pensò addirittura di «trasformare un prigioniero palestinese in un assassino programmato». Operazione fallita: il reclutato, una volta avviato alla sua missione omicida, si consegnò spontaneamente ai palestinesi denunciando i suoi ispiratori.
Con l’avvento di Ariel Sharon al ministero della Difesa la caccia diventò ossessione. Bergman ricorda in particolare «l’operazione Olympia»: gli agenti israeliani avevano piazzato una «serie di bombe sotto un palco Vip, in costruzione, di uno stadio di Beirut dove, il 1 gennaio 1982, l’Olp avrebbe celebrato l’anniversario della sua prima operazione contro Israele». L’obiettivo del Mossad era «l’intera leadership palestinese».
«Tutto era pronto, compresi potenti cariche esplosive già nascoste sotto il palco, mentre tre veicoli carichi di esplosivi dovevano essere parcheggiati nelle strade intorno allo stadio; tali esplosivi dovevano scoppiare circa un minuto dopo l’esplosione del palco» per colpire i sopravvissuti in fuga.
«La morte e la distruzione» risultanti sarebbero state «di proporzioni senza precedenti». L’operazione fu annullata per l’intervento di alti ufficiali dell’Aman, servizio centrale dell’intelligence militare di Israele e del viceministro della Difesa, i quali «andarono da Begin» e gli chiesero di cancellarla.
Quindi Sharon diede avvio all’operazione Pesce Salato. Arafat era monitorato di continuo e l’aviazione era pronta a colpire. A capo dell’operazione era stato messo Rafi Eitan, intenzionato a procedere anche anche a costo di uccidere civili.
L’ufficiale che doveva dare il via libera all’azione era Uzi Dayan: «Tutto quello che dovevo fare era segnalare quando l’obiettivo era maturo dal punto di vista dell’intelligence», ha confidato Dayan a Bergman, aggiungendo di aver espresso la sua contrarietà a un’operazione che mietesse vittime civili.
Una determinazione che gli aveva attirato il rimprovero del suo superiore, teso a ricordargli che certe decisioni non spettavano a lui.
«Da quel momento in poi, ogni volta che valutavamo che il bombardamento avrebbe comportato massicci danni ai civili, abbiamo riferito che l’obiettivo non era maturo».
L’operazione Pesce Salato diventa Pesce rosso quando il Mossad scopre che Arafat si spostava anche su voli di linea.
Sharon «aveva deciso che tali voli erano obiettivi legittimi. L’aereo [che trasportava Arafat ndr.] doveva essere abbattuto in mare aperto, lontano dalla costa, così che quelli che avrebbero poi investigato [sulla sua caduta ndr.] avrebbero impiegato molto tempo per ritrovare il relitto e per stabilire se fosse stato colpito da un missile o si fosse schiantato a causa di un guasto al motore. L’acqua profonda era preferibile, per rendere il recupero ancora più difficile».
«L’aviazione elaborò un piano dettagliato», prosegue il resoconto di Bergman. «Trovarono un punto nel Mediterraneo nel quale transitava traffico aereo di linea, ma non c’era una costante copertura radar da parte di alcuna nazione e il mare sottostante era profondo tre miglia, cosa che rendeva estremamente difficile, se non impossibile, un’operazione di salvataggio. Portare l’attacco in quest’area ideale, tuttavia, significava che la finestra di opportunità sarebbe stata molto stretta».
Allo scopo venne creato un ponte radio: un «Boeing 707 equipaggiato con radar e apparecchiature di comunicazione avrebbe dovuto avvisare che l’obiettivo era in zona».
«Sotto gli ordini diretti di Sharon, quindi, la sorveglianza di Arafat fu mantenuta ininterrottamente, e quattro caccia F-16 e F-15 furono messi in stato di allerta, pronti all’intercettazione. Nel corso di nove settimane, dal novembre 1982 ai primi di gennaio del 1983, tali aerei si alzarono in volo almeno cinque volte per intercettare e distruggere aerei di linea che si riteneva trasportassero Arafat», per essere poi richiamati alla base «subito dopo il decollo».
I «comandanti dell’aeronautica hanno intenzionalmente ostacolato l’operazione», riferisce Bergman, «rifiutando di obbedire a ordini che ritenevano manifestamente illegali. “Quando abbiamo ricevuto l’ordine,” racconta Sella [ufficiale contattato da Bergman ndr.], “sono andato da Eitan. Gli ho detto: “Comandante, non intendiamo portare a termine la missione. Semplicemente non si farà. Capisco che il ministro della difesa è il capo qui dentro. Nessuno osa opporsi a lui, così la renderemo tecnicamente impossibile”. Raful mi ha guardato e non ha detto niente. Ho preso il suo silenzio come un consenso”».
Da qui i vari boicottaggi messi in atto. Ne riportiamo alcuni, alquanto ingegnosi: «In un altro caso, le radio sul posto di comando volante, il Boeing 707 dell’aeronautica, erano intenzionalmente impostate su frequenze errate, in modo da oscurare le comunicazioni abbastanza a lungo da rendere impossibile l’intera operazione».
«In un altro ancora, Sella ha semplicemente ingannato Eitan, informandolo che l’aereo bersaglio era stato identificato troppo tardi e quindi c’era il pericolo che l’intercettazione venisse rilevata. Nelle restanti occasioni, “abbiamo semplicemente temporeggiato fin quando l’aereo non fosse uscito dall’area in cui era possibile colpire”», ricorda Sella.
Insomma, se Arafat non è stato ucciso in quegli anni, fu anche per l’insubordinazione di alcuni ufficiali dell’esercito israeliano e del Mossad. «Poi, improvvisamente, Arafat, l’uomo che era riuscito a scampare alla morte così tante volte, ha dovuto cedere a una misteriosa infezione che gli ha provocato un infarto», scrive Bergman.
«È morto l’11 novembre 2004, a 75 anni. Ad oggi infuria la controversia tra esperti di medicina forense e direttori di laboratorio sulla causa della morte e se tracce di polonio, materiale radioattivo usato negli omicidi, siano o non siano stati trovati sugli abiti e sulle spoglie mortali di Arafat». Tel Aviv ha «categoricamente negato che Israele sia in qualche modo coinvolta nella morte di Arafat».
Se per tanta parte di mondo Arafat era un patriota, per Israele era semplicemente un terrorista, responsabile della morte di tanti israeliani, anche civili, come ricorda Bergman nel suo scritto. Da qui la determinazione a ucciderlo.
Un articolo ponderoso e ponderato quello del cronista del New York Times. Che fa storia. E molto istruttivo anche per il presente.