Usa: la battaglia della Corte Suprema
Tempo di lettura: 3 minutiLa morte di Ruth Bader Ginsburg, alto magistrato della Corte Suprema degli Stati Uniti, infiamma la campagna elettorale. Magistrato integerrimo, donna-icona dei liberal, ma rispettata anche dai repubblicani, la sua morte giunge come una tegola inaspettata per il partito democratico.
La ragione va ricercata nelle nostre ultime note, nelle quali avevamo dato conto sia del caos che si prospetta al momento dello scrutinio sia dell’oscuro lavorio dei democratici per ribaltare un eventuale esito sfavorevole del voto nei seggi.
Si è accennato di come tale partito abbia puntato tutto sul “massimizzare” il voto via posta, suscitando nei repubblicani il sospetto, ed esplicite accuse, che si voglia usare di tale variante elettorale per manipolare l’esito delle elezioni.
Un sospetto che non sembra così aleatorio se Tulsi Gabbard, già candidata alla Casa Bianca per la variegata squadra radicale che fa riferimento a Bernie Sanders, ha presentato un disegno di legge che mira a “proteggere” il voto per corrispondenza da possibili manipolazioni.
Al di là di accuse e contro-accuse, è comunque alquanto probabile che la superfetazione del voto postale darà avvio a interpretazioni e battaglie sulle interpretazioni.
Il caos che ne seguirà accenderà contese – di piazza, mediatiche e legali -, che i democratici hanno intenzione di “massimizzare”, qualsiasi senso si voglia ascrivere a tale parola. Lo indica, tra le altre cose, la creazione di una formidabile squadra legale al servizio del partito, pronta a pugnare su ogni scheda.
In tale prospettiva il partito democratico ha puntato tutto sulla Corte Suprema, nella quale evidentemente spera di avere orecchie più attente alle proprie ragioni che a quelle altrui.
Questa l’implicita prospettiva che indicano i vari interventi in tal senso di cui abbiamo dato conto nelle note pregresse. Ne esce un’immagine alquanto offensiva per il prestigio della Corte Suprema, alla quale si addice la terzietà.
Un dubbio eluso grazie a un ragionamento alquanto parziale: noi siamo i buoni e giusti, gli altri sono i cattivi.
L’impressione che la Corte sia vista come uno strumento per l’affermazione delle proprie – cioè dei democratici – ragioni è rafforzata da quanto sta avvenendo dopo la morte della Ginsburg, il cui seggio i democratici vorrebbero restasse vacante.
Richiesta affatto politica perché in deroga alla Costituzione che chiede al presidente di provvedere a sostituire un membro venuto a mancare per morte o dimissioni.
Una deroga che si vorrebbe avallata anche dalla Ginsburg, che avrebbe chiesto espressamente di essere sostituita dal presidente successivo. Parole non sostenute da documentazione, da cui il sospetto che possano essere inventate o “interpretate” per per dar forza alla richiesta politica.
Al di là di interpretazioni e sospetti, colpisce il furore col quale si vuole impedire a Trump di procedere alla nomina.
Evidentemente il campo democratico teme che attraverso questa nomina la Corte Suprema perda quella sensibilità alle loro ragioni di cui sopra.
È proprio la prospettiva di un’accesa contesa post elettorale che invece dovrebbe urgere a procedere a tale nomina: l’idea che la Corte Suprema si possa trovare a districarsi in un caos post elettorale di immani proporzioni in una condizione non ottimale dovrebbe interpellare.
La battaglia, semmai, dovrebbe vertere sul nome del designato, per favorire la scelta di una figura di sicura autorevolezza. Si avrebbe modo, dato che il Senato deve ratificare la scelta dal presidente e che alcuni senatori repubblicani hanno già dato atto di avere certa libertà rispetto alle decisioni del partito.
Ma i democratici stanno seguendo tutt’altra strada, cercando di affondare il processo di nomina. E creando attorno a tale questione un clima da Armageddon. Tempi nervosi, come dimostra il pacco contenente ricina, una potente tossina, inviato a Trump.