Usa, svolta su Israele e Ucraina
“Negli ultimi cinque giorni Biden si è impegnato in una pubblica dimostrazione di quanto sia ardua la gestione di due degli alleati più difficili dell’America, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, leader di Paesi che il presidente ha promesso di difendere finché sarà necessario”. Così inizia un articolo di David Sanger sul New York Times.
Nonostante si tratti di conflitti diversi, prosegue il Nyt, “una coincidenza ha voluto che le due guerre sembrano arrivate a un punto di svolta critico, quel momento in cui diventa evidente quanto gli interessi nazionali [dei rispettivi Paesi] stiano divergendo – per non parlare degli interessi dei tre leader politici, chiaramente preoccupati per la conservazione del potere”.
“A rendere ancor più complesso il problema è il fatto che a Washington non è chiaro quale potrebbe essere una fine accettabile” dei due conflitti.
Le prospettive irrealistiche di Zelensky e Netanyahu
Sia Zelensky che Netanyahu, infatti, continuano a brandire la vittoria totale sul nemico – la Russia che si ritira da tutto il territorio ucraino e Hamas che viene eliminato dalla scena globale – “ma per Washington – spiega Sanger – queste dichiarazioni appaiono sempre più irrealistiche. La Russia sembra [sembra? ndr] stia riprendendo slancio. L’appello alla sconfitta totale di Hamas suona come una giustificazione per una guerra infinita“.
Interpellato sul punto, Aaron David Miller, esponente del Carnegie Endowment for International Peace e con una lunga esperienza di negoziati in Medio Oriente, ha spiegato al Nyt che, dopo aver sostenuto entrambi gli alleati, gli Stati Uniti ora sono “impegnati a portare questi conflitti alla fase successiva, una fase in cui il livello dello scontro vada a ridursi, anche se non riusciamo ad articolare una visione realistica di come debba finire”.
Una dichiarazione che appare in contraddizione con l’ok dato da Washington a Kiev perché usi le armi statunitensi contro il territorio russo… tale contraddizione non emerge nel resoconto di Sanger, che si limita a raccontare che a convincere il riluttante Biden a compiere tale passo sono stati i suoi più stretti consiglieri e che il presidente ha infranto una limitazione che si era auto-imposto all’inizio della guerra ucraina. Un limite, annota Sanger, che Biden riteneva necessario per “evitare la Terza Guerra Mondiale” (sic).
Nonostante il rischio, Sanger ricorda come, dopo l’ok, il Segretario di Stato Tony Blinken, invece di calmare le acque, abbia rilanciato affermando che questa “potrebbe non essere l’ultima eccezione” alla regola che Biden si era auto-imposto…
L’inusuale intervento di Biden su Gaza
Sanger passa poi ad analizzare il momentum della guerra di Gaza, anch’esso critico, spiegando che “è a dir poco insolito che un presidente americano esponga i dettagli di un piano [di tregua] israeliano: i funzionari avvezzi alla diplomazia sanno che non devono parlare a nome di altri Stati. Ma in questo caso il punto era proprio questo. Biden ha parlato dopo mesi di frustrazione, nei quali Netanyahu si è rifiutato di seguire le ammonizioni americane” un po’ su tutto.
E annota come il premier israeliano, pur non avendo “negato di aver firmato il piano, non lo ha neanche ammesso. ‘Sta tergiversando’, ha commentato infatti Shalom Lipner, un analista del Consiglio Atlantico che per 26 anni ha lavorato con sette primi ministri israeliani, Netanyahu compreso” (per accorgersi dell’ambiguità del premier israeliano non serviva il Nyt…).
“Rendere pubblica questa proposta – di sabato, quando [Biden] sapeva che i partiti religiosi di ultra destra potevano non prestarvi attenzione o, in ogni caso, non avrebbero avuto modo di reagire – è diventata una necessità perché il tempo sta scorrendo via velocemente”, ha aggiunto Lipner.
La paura di Biden è di essere perseguitato dai fantasmi di Gaza durante la campagna elettorale, con gli attivisti che lo contestano nel corso degli eventi elettorali. Da qui l’insolita “dichiarazione pubblica che serviva a mettere all’angolo l’altro”, cioè il premier israeliano.
E così è stato: Netanyahu non può andare pubblicamente contro il presidente Usa, dovrà quindi agire d’astuzia, tentando di affondare il piano nel corso delle trattative con Hamas, che da parte sua si è detto subito disposto ad accogliere la proposta.
La schizofrenia imperiale degli Usa
Fin qui una delle più autorevoli penne del Nyt, in un articolo che abbiamo riportato perché evidenzia le criticità parallele dei due conflitti e le difficoltà in cui si dibatte l’Impero rispetto alle due guerre, oltre a registrare il distacco di Washington rispetto alla leadership dei due Paesi. Allo stesso tempo, lo scritto dà la misura della schizofrenia nella quale versa l’Impero e i suoi corifei.
Sull’Ucraina, ad esempio, in cui si rileva la succitata palese contraddizione tra la spinta per ridurre il livello dello scontro e l’escalation opposta – con il rischio di innescare un conflitto nucleare – e su Gaza, dove ora si sta tentando di frenare un mostro diventato tale in virtù del supporto totale degli Usa.
Ma a dare la misura della schizofrenia è anche la confessione che Washington non sa bene come può prendere forma un endgame in entrambi i conflitti. Ora, dopo più di due anni nel caso ucraino e oltre sette mesi in quello israeliano, l’impero ha preso coscienza che gli obiettivi branditi dai suoi alleati erano e sono “irrealistici”.
Invece di indurli ab initio a perseguire obiettivi più realistici, gli Usa li hanno assecondati supinamente, nella sconsiderata certezza di incassare dividendi dalla guerra per procura contro la Russia e cercando di trarre benefici dal conflitto mediorientale (ad esempio rilanciando gli accordi di Abraham che la distensione tra sunniti e sciiti – favorita da Cina e Russia, con adesione di Riad e Abu Dhabi ai Brics- aveva oscurato; emarginando Assad appena riammesso nell’ecumene araba; ricompattando lo stato israeliano lacerato e a rischio guerra civile a causa della riforma giudiziaria di Netanyahu).
Assecondando le irrealistiche prospettive dei due alleati, gli Stati Uniti sono rimasti prigionieri della follia da loro stessi alimentata. Un circolo vizioso da cui è difficile uscire.