WSJ: Israele - Hamas, negoziati in vista
Mentre prosegue a ritmo sostenuto la macelleria di Gaza, 25mila i morti, il Wall Street Journal pubblica un articolo che accende un barlume di speranza. Secondo fonti diplomatiche “attendibili”, come sintetizza Amos Harel si Haaretz, “Stati Uniti, Qatar ed Egitto stanno esercitando pressioni su entrambe le parti affinché raggiungano un accordo, che nella prima fase vedrebbe il rilascio di alcuni civili israeliani e nella fase finale il ritiro delle forze di difesa israeliane dalla Striscia di Gaza e la dichiarazione di fine guerra”.
Previsti colloqui al Cairo tra Israele e Hamas
In realtà, continua la sintesi di Harel, non “ci sono stati progressi nei colloqui, ma per la prima volta da molto tempo sia Israele che Hamas hanno espresso la loro disponibilità a discutere seriamente un accordo. I colloqui dovrebbero riprendere al Cairo questa settimana”.
“Finora Israele ha cercato un nuovo accordo che fosse basato sulla liberazione di ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e di un cessate il fuoco di due settimane. Ma i mediatori egiziani chiedono un cessate il fuoco di 90 giorni, al termine del quale le parti arriverebbero alla fase in cui la guerra avrebbe finalmente fine”.
La liberazione degli ostaggi sarebbe graduale, divisa in tre distinte fasi e “a ogni fase, Israele rilascerebbe un certo numero di detenuti palestinesi – il numero totale sarebbe nell’ordine di diverse migliaia – ritirando gradualmente le forze dell’IDF dalla Striscia di Gaza”.
Peraltro, il report segnala che ci sarebbe una dialettica tra Yahya Sinwar, il leader di Hamas nella Striscia, e i dirigenti in esilio, con questi ultimi che avrebbero “segnalato la loro disponibilità a discutere della smilitarizzazione di Gaza e la fine dei combattimenti, incontrando la ferma opposizione di Sinwar”.
Allo stesso tempo, si è creata una spaccatura nella leadership israeliana, di cui abbiamo dato conto in note precedenti, con la fazione guidata da Gadi Eisenkot e Benny Gantz – entrambi membri del gabinetto di guerra ed ex capi di Stato Maggiore – che intende chiudere la guerra con la liberazione degli ostaggi, mentre Netanyahu guida la fazione più bellicosa.
Netanyahu e Biden
La frizione all’interno del gabinetto di guerra si riverbera anche nei rapporti con gli Stati Uniti. Tale spaccatura è stata evidente dopo la telefonata tra Biden e Netanyahu della scorsa settimana, con il presidente Usa che ha dichiarato come Netanyahu avesse accettato la proposta di uno Stato palestinese, affermazione che quest’ultimo si è affrettato a negare, dichiarando anzi che con lui al potere non ci sarà mai tale Stato.
Secondo Harel, però, la postura di Netanyahu è a uso interno, come peraltro – possiamo aggiungere – segnala l’affermazione che lo Stato palestinese costituirebbe una “minaccia esistenziale” per Israele, estremismo al quale non era mai ricorso prima.
In tal modo, Netanyahu intende ergersi a leader indiscusso della destra israeliana. Resta, però, come afferma Harel in altra parte dell’articolo, che Netanyahu è uso ad agire nel segreto in contrasto con le sue affermazioni, comportamento che discende dal suo pragmatismo altrettanto estremo.
Al di là, Harel annota anche come la telefonata tra Biden e Netanyahu sia la prima da un mese e che Biden abbia convinto il suo interlocutore a far sì che Israele renda ai palestinesi della Cisgiordania le tasse sequestrate (è Tel Aviv a incassare le tasse della Cisgiordania per poi girarle alle autorità della stessa, meccanismo che è stato bloccato di recente).
Imprevisti e conferme
Quanto riferito dal WSJ non va accolto con ingenuità, dal momento che gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, ma riteniamo abbia un fondo di verità. D’altronde, la telefonata tra Biden e Netanyahu deve per forza essere stata preceduta da un dialogo sottotraccia dei rispettivi staff e non certo solo sulla questione delle tasse dei palestinesi o sul futuro di Gaza e dello Stato palestinese, dal momento che senza un cessate il fuoco è inutile discutere del futuro.
Desta perplessità l’idea per cui Hamas accetterebbe una smilitarizzazione della Striscia, dal momento che appare irrealistica. Ma è possibile una soluzione ventilata a suo tempo da un cronista di Haaretz, che ricordava come la guerra del Libano degli anni ’70 – ’80 si chiuse con una tregua che vide la dirigenza palestinese accettare l’esilio a Tunisi. Un modello che potrebbe applicarsi all’attuale dirigenza di Hamas di Gaza.
Piccolo indizio che sembra confermare la fondatezza di quanto esposto, le parole del maggiore generale israeliano Noam Tibon, il quale ha dichiarato che è arrivato il momento di trovare un accordo con Hamas e riportare indietro gli ostaggi, “altrimenti torneranno tutti in bare o non torneranno affatto” (al Jazeera). Nel clima di censura stringente che vige in Israele, il fatto che un generale si esponga in tal modo segnala che nell’esercito c’è una forte spinta verso i negoziati. E l’esercito ha un peso notevole in Israele.
Interessante anche quanto scrive Noa Limone su Haaretz: “L’opinione pubblica sta lentamente arrivando a capire che le promesse di rovesciare il governo di Hamas e distruggere l’organizzazione non saranno mantenute. E alla fine dovremo anche renderci conto che Hamas farà presumibilmente parte del futuro governo di Gaza. Anche l’idea che sia possibile liberare gli ostaggi attraverso operazioni militari eroiche è una fantasia ridicola”.
Sviluppi da seguire.