14 Aprile 2023

Yemen: la pace che gli USA non vogliono

Faisal Mekdad, ministro degli esteri siriano, con Faisal bin Farhan bin Abdullah, suo omologo dell'Arabia Saudita. Yemen: la pace che gli Stati Uniti non vogliono
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L’Arabia Saudita si è fatta promotrice di un processo di distensione che prosegue a un ritmo sempre più accelerato e che potrebbe cambiare il volto del Medio oriente. Ne abbiamo dato notizia sul nostro sito, annotando, in particolare, come abbia deciso di porre fine alla guerra in Yemen, proponendo la pace ai ribelli Houti; di riallacciare i rapporti diplomatici con l’Iran, l’antagonista regionale; e di proporre la riammissione della Siria nella Lega Araba, dalla quale era stata espulsa all’inizio del regime-change siriano.

L’attivismo saudita

Su quest’ultima direttrice si annota la visita in Arabia Saudita del ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad, che si è incontrato col suo omologo saudita, il principe Faisal bin Farhan bin Abdullah, per mettere a punto una proposta per il ritorno della Siria nella Lega Araba, rispetto al quale, come annota soddisfatto il Wall Street Journal, ci sarebbero resistenze che sarebbero emerse nel recente vertice dei leader della regione.

Da vedere se si riuscirà a superarle per il 19 maggio, quando la Lega è chiamata a riunirsi a Riad. La diplomazia saudita e siriana hanno ancora tempo a disposizione e frecce al loro arco.

Nel frattempo, come avevamo registrato, una delegazione di Riad è stata inviata a Sanaa per avviare il sospirato processo di pace in Yemen. I funzionari sauditi si sono incontrati con alcuni leader dei ribelli Houti, ai quali hanno presentato il loro piano di pace. Questa non è ancora fiorita, tante le divergenze da appianare e le diffidenze reciproche.

Ma che qualcosa si stia muovendo in senso positivo lo indica lo scambio di prigionieri che sta avvenendo in questi giorni, il più massivo dall’inizio della guerra, dal momento che si prevede che circa un migliaio di essi potranno far ritorno alle loro famiglie. Un’iniziativa complessa, supportata – altro aspetto significativo – sia dalla Croce Rossa che dalla Mezzaluna Rossa (al Jazeera).

L’attivismo saudita sta provocando, però, grande irritazione a Washington, sia perché vede il suo ex vassallo stringere rapporti con Cina e Russia, sia perché le iniziative regionali di Riad sfuggono al suo controllo e, per di più, vanno contro le direttive base della politica estera statunitense.

Oltre ai rinnovati rapporti con la Siria, nel mirino Usa è finito l’appeasement con l’Iran, che ha nella pace con gli Houti, supportati da Teheran, un corollario. Tale pace sarebbe un vero scacco per i neocon, che da anni hanno messo l’Iran nel mirino e hanno modellato la guerra yemenita al modo di una guerra per procura, ottima per erodere le risorse di Teheran e alimentare i profitti dell’apparato militar industriale Usa (al modo della guerra ucraina per la Russia).

Così, a inizio aprile, il Capo della Cia è stato inviato a Riad. Una visita improvvisa, nella quale Burns ha avuto modo di esternare la contrarietà di Washington. Ma, a quanto pare, la visita non è andata come speravano negli Usa, così due giorni fa il Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan ha chiamato il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Quando la Casa Bianca disse no alla pace in Yemen

L’Associated Press riferisce che Sullivan si è limitato a offrire il supporto Usa all’iniziativa di pace yemenita, ma si può nutrire qualche perplessità in proposito. Infatti, va ricordato un particolare: quando al Congresso degli Stati Uniti, nello scorso dicembre, era stato proposto un disegno di legge per togliere il supporto americano alla guerra yemenita che, se approvato, avrebbe posto fine al conflitto (Riad non poteva proseguire senza di esso), la Casa Bianca ha fatto pressioni sui senatori perché lo bocciassero (The Intercept). Così la norma, proposta da Sanders e altri senatori,  è stata respinta e la guerra è proseguita.

Probabile che allora la Casa Bianca si sia mossa su pressione dei falchi, alla quale Biden si era dovuto piegare. Infatti, subito dopo la sua elezione, Biden aveva espresso la sua volontà di chiudere il conflitto, ma non era riuscito a dar seguito al proposito.

È quindi possibile che con la recente telefonata di Sullivan – l’uomo più vicino a Biden in seno all’amministrazione Usa – si sia voluto porre una toppa su uno scivolone passato. O forse, più banalmente, visto che sui media era iniziata a circolare la notizia dell’irritazione Usa per la possibile pace yemenita, si è semplicemente voluto evitare questo evidente danno di immagine.

Ma al di là delle tragiche contraddizioni interne al potere statunitense e al di là delle intenzioni sottese alla telefonata di Sullivan e alla veridicità del resoconto dell’Associated Press, i fatti restano. E dicono chiaramente che se la pace in Yemen si farà, sarà fatta contro la spinta americana.

Quanto alla telefonata, è più che probabile che Sullivan abbia riferito il pleonastico, e forse sincero, supporto di Biden alla pace yemenita, mettendo però allo stesso tempo in guardia il suo interlocutore saudita sui rapporti con Cina, Iran e Siria.

Se si considera che in pochi giorni Mohamed bin Salman si è dovuto sorbire la visita di Burns e la telefonata di Sullivan, si può ben dire che stia subendo qualcosa di simile allo stalkeraggio. Si spera che la Sicurezza saudita sia all’altezza della situazione, dal momento che certe attenzioni americane in genere non portano fortuna ai malcapitati che le subiscono.