17 Marzo 2025

Yemen: la prima guerra di Trump

Trump ordina di bombardare lo Yemen che ha chiuso il Golfo di Aden per far pressione su Israele affinché tolga il blocco degli aiuti a Gaza. Negli stessi giorni, la frenata sulle trattative con Hamas
di Davide Malacaria
Yemen: la prima guerra di Trump
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Le bombe che hanno fatto strage in Yemen, 53 le vittime tra le quali si contano anche dei bambini, segnano una svolta della politica estera di Trump; meglio,  evidenziano una deriva rischiosa. È la prima operazione bellica intrapresa dalla sua amministrazione e il fatto che si sia dispiegata in Medio oriente la rende ancora più preoccupante.

Anzitutto i fatti. Gli Houti dello Yemen avevano lanciato un ultimatum a Israele chiedendo che recedesse dal blocco degli aiuti a Gaza, che sta flagellando i palestinesi, pena la ripresa delle operazioni militari nel Golfo di Aden contro le sue navi, sospeso dopo la tregua tra Israele e Hamas.

Aveva dato quattro giorni di tempo perché Tel Aviv adempisse alle richieste. Allo scadere dell’ultimatum, ignorato dalla controparte, ha ripreso gli attacchi alle navi israeliane, con annessi danni economici.

Gaza: speranza infrante

Trump ha quindi deciso di scendere in campo a fianco di Israele ordinando l’attacco. Di fatto, un’azione che lo rende complice del genocidio che si sta consumando a Gaza perché, forte di tale appoggio, Israele ha più agio a perseverare nel blocco degli aiuti.

L’ordine appare però collegato anche ad altro, cioè a una improvvisa caduta del processo negoziale relativo alla Striscia. Tale processo sembrava procedere verso un esito positivo, soprattutto dopo il dialogo diretto Hamas-Stati Uniti intrapreso dall’inviato per gli ostaggi Adam Boehler, con quest’ultimo che aveva elogiato le offerte di Hamas, in particolare l’idea di ottenere una tregua duratura in cambio del loro disarmo e del loro ritiro dal governo della Striscia.

I falchi pro-Israele, americani e israeliani, avevano alzato un fuoco di sbarramento contro la sua iniziativa e, implicitamente, contro le prospettive che aveva aperto. Una tempesta che aveva fatto vacillare quanto concordato in via provvisoria e riservata, ma non l’essenziale, tanto che Hamas aveva annunciato l’intenzione di liberare un ostaggio americano, assecondando le pubbliche richieste di Washington, e di restituire le spoglie di alcuni ostaggi defunti.

Un gesto che denotava un’apertura di credito verso l’operato dell’amministrazione Usa, che si era mossa in una direzione diversa e più ragionevole rispetto alla leadership israeliana, ferma nella sua idea di ottenere la liberazione degli ostaggi in cambio di prolungamento provvisorio della tregua, che gli permetterebbe di ricominciare la guerra successivamente.

In parallelo all’annuncio di Hamas, Trump dichiarava che nessun palestinese sarebbe stato sfollato da Gaza, rimangiandosi precedenti dichiarazioni in tal senso (in realtà, avevamo espresso riserve sull’effettiva volontà del presidente Usa di deportare i palestinesi).

Gaza: si chiude la prima fase della tregua. L'incerto futuro

Sembrava la svolta, che peraltro coincideva con il viaggio dell’inviato di Trump a Mosca, dove Steve Witkoff avrà certo discusso anche della situazione mediorientale, suo incarico principale.

Invece, a fine settimana, la doccia fredda. Israele sollevava obiezioni durissime contro l’offerta di Hamas, tacciata come una manovra volta a manipolare l’amministrazione Usa. Critiche pubbliche che devono essersi intrecciate con pressioni private, che hanno chiuso le prospettive aperte.

L’amministrazione Trump cede

In particolare, Boehler dichiarava che non avrebbe cercato una conferma al suo incarico di negoziatore per gli ostaggi, rinunciando a passare al vaglio del Senato come prevede la prassi americana. Evidentemente, sapeva che la sua nomina non sarebbe stata approvata. Indorava la pillola spiegando che comunque avrebbe continuato a svolgere la sua missione come incaricato personale di Trump, al modo di Witkoff, col quale, ha aggiunto, avrebbe continuato a lavorare.

Boehler pulls his candidacy to serve as US presidential envoy for hostage affairs

Sostanza salva, dunque, ma pur sempre un cedimento, al quale se ne aggiungeva un altro ben più grave per l’esito dei negoziati: Witkoff dichiarava pubblicamente che le richieste di Hamas erano “inaccettabili“. Tutto da rifare, dunque, le pressioni dei falchi pro-Israele hanno colpito e affondato.

Peraltro, che Trump sia sensibile a tali pressioni lo denota la campagna contro i sostenitori della Palestina – accomunati dalla propaganda ai sostenitori di Hamas – che sta raggiungendo vette da maccartismo sfrenato nelle iniziative volte a contrastare l’antisemitismo nelle Università, che vede ragazzi allontanati dagli studi e dagli Usa, professori vessati e altro e più commendevole (una campagna che vede concordi i repubblicani Maga e i loro acerrimi nemici liberal/neocon…).

Nella stessa direzione l’annullamento, sempre di questi giorni, della nomina di Dan Davis a vicedirettore dell’Intelligence nazionale, incarico che gli era stato affidato dalla nuova direttrice Tulsi Gabbard. Non ha giovato a Davis l’aver criticato la campagna di Israele a Gaza, critica ricordata prontamente da taluni media ebraici per bloccarne la nomina.

Daniel Davis denied role as Deputy Director of National Intelligence, source tells 'Post'

Negli stessi giorni si è registrato un inasprimento nei confronti dell’Iran. Se prima Trump aveva chiesto a Putin di mediare con Teheran e inviato una missiva all’ajatollah Khamenei, mossa distensiva al di là dei contenuti, in questi giorni sembra voglia tornare alla massima pressione.

Ciò sia con gli ammonimenti a Teheran perché frenino gli Houti, pena conseguenze, sia con la retromarcia di Eldbrige Colby, l’uomo designato a vice del Pentagono che in passato aveva speso parole distensive nei confronti di Teheran.

Per poter essere confermato dal Senato, conferma ancora in sospeso da tempo, si è dovuto rimangiare tutto, virando verso la massima pressione e criticando l’approccio non aggressivo dell’incaricato del Pentagono per il Medio oriente Michael DiMino. Forse anche prevedendo questo giro di vite, l’Iran ha tenuto delle esercitazioni navali congiunte con Russia e Cina.

Insomma, negli ultimi giorni l’amministrazione Usa sta approcciando in modo più aggressivo le criticità mediorientali. Si spera che sia un momento passeggero, ma resta doveroso registrare quanto Trump sia sensibile alle pressioni dei falchi pro-Israele.

Se non riuscirà a liberarsi da questo abbraccio mortale, trascinerà l’America in nuove conflittualità nella regione. È doveroso ricordare che la guerra al Terrore e le associate guerre infinite, che pure vuol chiudere, hanno avuto nel Medio oriente il loro punto sorgivo.