Zelensky: l'indicibile e la terza guerra mondiale
Il 21 maggio Volodymyr Zelensky ha rilasciato un’intervista più che interessante al New York Times, nella quale ribadiva in maniera ossessiva la necessità di un placet a colpire il territorio russo con armi Nato. Una sollecitazione che discende da influenti ambiti Nato e che non nasce oggi; e che sta montando alla stregua di quanto avvenuto per le escalation del passato, con l’amministrazione Usa che nicchiava e il partito della guerra a martellare perché desse luce verde alla fornitura via via degli Himars, dei carri armati, delle bombe a grappolo fino agli F-16.
Una dinamica, quella succitata, che vede dipanarsi una dialettica più o meno feroce all’interno dell’Impero d’Occidente, che spesso, anzi più o meno sempre, nelle analisi non viene presa in considerazione, come se si trattasse di un blocco monolitico. Invece, tale dialettica, generata da interessi e prospettive divergenti nella leadership imperiale, gioca un ruolo importante nelle dinamiche del mondo.
L’enigmatico passaggio dell’intervista a Zelensky
Se si tiene presente questo, appare più che interessante un enigmatico passaggio dell’intervista di Zelensky: “Quando si parla di escalation e di armi nucleari, e di tutte queste narrazioni di cui parla la Russia, sai, [Putin] è una persona irrazionale. Perché una persona razionale non può scatenare una guerra su vasta scala contro un altro stato. È irrazionale, oppure sapeva che non ci sarebbero state conseguenze per lui, il che significa che c’era stato un dialogo con altri paesi. E non voglio nemmeno pensarci perché allora non è una partnership, è un gioco alle spalle l’uno dell’altro, ed è un tradimento, tradimento assoluto“.
L’allusione di Zelensky è alquanto esplicita. Putin, prima di decidere l’invasione, avrebbe avuto un segreto accordo con qualche altro Paese, tale da garantirgli il successo. E l’unico Paese che avrebbe potuto dare garanzie in tal senso era l’America.
Un delirio? Forse, o forse qualcosa di altro e ben più reale e pericoloso, che proveremo a dipanare. Anzitutto, è possibile che Putin avesse un tacito accordo con l”amministrazione Usa?
In realtà, all’inizio della guerra avevamo dedicato due note (Piccolenote 20 maggio 2022 e 12 luglio 2022) proprio a tale scenario, che proviamo a sintetizzare.
Anzitutto, occorre ricordare che Putin e Biden (e Sullivan…) dialogarono tre volte prima dell’invasione, con lo zar che chiedeva la neutralità di Kiev e gli altri a negarla. Così i report ufficiali.
Ma è possibile che abbiano parlato di altro? Forse, anche se si tiene conto che certi incontri non sono improvvisati, le squadre dei due Paesi lavorano a stretto contatto per prepararli nel più stretto riserbo. Una sede nella quale si possono intrecciare dialoghi più riservati.
Poi va ricordato che l’invasione fu alquanto improvvida. Putin decise di attaccare d’improvviso, senza neanche informare i suoi, a parte alcuni, come mostrato dall’imbarazzo dei ministri russi nel filmato relativo alla dichiarazione di guerra.
Non solo, l’attacco fu portato con una forza del tutto inadeguata: cento, duecento mila uomini contro un esercito che ne contava di più, attrezzato e ben preparato dalla Nato (per fare un esempio, l’America attaccò l’esercito fantoccio iracheno con un milione e duecentomila uomini…). Tale inadeguatezza fu evidente nella prima fase della guerra, alquanto raffazzonata e con perdite non ripetute in quei termini dalla parte russa.
Il giorno in cui tutto cambiò
Ma veniamo all’altra sponda dell’Oceano, con Biden che, prima dell’invasione, sollecitato più volte e in maniera feroce a rispondere su una possibile invasione russa, ripeteva con ostinazione che l’America non avrebbe difeso l’Ucraina perché non era un Paese Nato. Non solo, in un gesto più che simbolico, decise di chiudere l’ambasciata statunitense a Kiev per spostarla a Leopoli.
Quanto all’Ucraina, se prima dell’invasione da Kiev i suoi leader continuavano a inviare messaggi rassicuranti sull’impossibilità di un’invasione, subito dopo l’attacco, Zelensky andò nel panico, cedendo di schianto alle richieste russe, in particolare sulla neutralità del suo Paese.
Venne poi il giorno fatidico, quando l’America chiese a Zelensky di fuggire a Leopoli, con il presidente ucraino che, inaspettatamente, rigettò con sdegno la profferta, pronunciando la famosa frase che fece il giro del mondo: “Non mi serve un passaggio, ma munizioni”, peraltro mai detta (così il Washington Post: “L’unica testimonianza di questa frase proviene da un funzionario americano anonimo. Non è stata confermata né dal governo degli Stati Uniti né dall’ufficio di Zelensky”, per dire l’artificiosità della narrativa di guerra).
Piegare Biden
Nel raccontare tale episodio, Gian Micalessin ha parlato di un intervento di Boris Johnson su Zelensky, ma è ovvio che questi da solo non aveva la forza necessaria. Più probabile che i neocon Usa abbiano assecondato l’intesa segreta, cosa che ha rassicurato Biden, e di conseguenza Putin, perché gli offriva l’opportunità di trascinare la Russia in un Vietnam. Sarebbe bastato, com’è avvenuto, far saltare tutto successivamente.
Tanti, tra cui Micalessin, hanno spiegato l’assalto russo come diretto a innescare un golpe che mettesse al potere figure meno anti-russe, questo il senso di puntare dritti su Kiev e dell’inconsueto appello di Putin, che dopo il niet di Zelensky a Biden, esortò i generali a destituirlo. Appelli che non si fanno se non si è sicuri di riuscire, pena una figura barbina internazionale. Un appello quasi disperato, quindi, quando lo zar capì che era saltato tutto.
Ma il golpe non basta a spiegare. Organizzare un golpe è complicato, soprattutto se si tiene conto che in Ucraina la Nato controllava tutto. Troppi i rischi di un colpo a vuoto e di ritrovarsi impelagato in una guerra logorante. L’enigma di Zelensky, invece, spiegherebbe tutto.
I neocon, però, dovevano piegare Biden alla prospettiva Vietnam, cosa alla quale si adoperarono con pressioni debite e indebite. Un esempio tra i tanti, il caso esplosivo del computer di Hunter Biden, che i media mainstream avevano in precedenza trattato come una patacca, diventava improvvisamente veritiero, tanto da attirare l’attenzione dell’Fbi.
Biden ha resistito come ha potuto, ma alla fine si è piegato. Tale dialettica è durata tutta la guerra, con Biden – che può contare su pochi fidati nell’amministrazione, nella Difesa e negli apparati – costretto ad affrontare la lotta continua dei neocon, come dimostrano anche le recenti resistenze della Casa Bianca a dare il placet a Kiev per usare le armi Usa in territorio russo e la sua intenzione di disertare il summit svizzero indetto da Zelensky.
Il perché Biden non possa parlare pubblicamente dell’accordo pre-invasione è ovvio, mentre per Putin si tratta di non gettare a mare i pochi in Occidente che conservano un po’ di lucidità. Così l’intesa resta indicibile.
Ma la domanda che si pone ora è un’altra ed è perché Zelensky abbia fatto questa allusione esplosiva al New York Times, peraltro il media più prossimo alla Casa Bianca. Un’allusione che il Nyt ha un po’ nascosto grazie a una scelta giornalistica alquanto singolare: ha pubblicato l’integrale ponderoso dell’intervista (vedi foto di copertina) e poi una più accattivante sintesi, alla portata di tutti, dove tale allusione è scomparsa.
Il ricatto di Zelensky
Si tratta di un ricatto neanche troppo velato a Biden dalla portata esplosiva: se disvelato, l’asserito “tradimento” – in realtà un accordo sottobanco come altri – costringerebbe i democratici a sostituirlo nella corsa alla Casa Bianca e altro.
Il ricatto alzo zero potrebbe così costringere il presidente Usa a piegarsi per l’ennesima volta, sia dando luce verde a colpire i territori russi – terza guerra mondiale – sia presenziando al summit svizzero o una delle due (a proposito, torna a ruggire il caso Hunter Biden; il 22 maggio, il giorno dopo l’intervista di Zelensky, l’annuncio che il suo portatile sarà portato in un’aula di tribunale e usato contro di lui).
L’alternativa è che Biden abbia la forza per resistere o che si ripeta lo scenario del Vietnam del Sud, quando il presidente Ngô Đình Diệm, sentendosi abbandonato, iniziò a criticare gli Stati Uniti. Non gli portò bene: fu ucciso in un golpe.