Il Celtic Glasgow, i bambini poveri e il Paradiso
Lisbona, Stadio Nazionale, 25 maggio 1967. Si gioca Celtic Glasgow – Inter (allora nota come Internazionale Milano), finalissima della dodicesima Coppa dei Campioni.
Si, avete capito bene, Coppa dei Campioni. Non è la traduzione semplificata di Champions League. Infatti, dal 1955 al 1991 la maggiore delle competizioni a squadre era riservata soltanto alle vincitrici dei singoli campionati nazionali, ed era a turno doppio di andata e ritorno, a eliminazione diretta. Poche partite, niente televisione. Non ancora una lega né tanto più una super lega.
Sugli spalti, gremiti fino all’ultimo posto, ben 54.000 spettatori, moltissimi dei quali provenienti da Scozia e Irlanda. Per partecipare alla finale molti dovettero dar fondo ai risparmi di una vita. Ma non si poteva certo lasciare sola la propria squadra del cuore in una partita così importante. L’allenatore del Celtic, l’ex minatore Jock Stein, entrato in campo nel prepartita, guardando gli spalti non credeva ai suoi occhi: “Quante ore di straordinario avranno dovuto fare per poter arrivare fin qui?”.
Ma non è solo di questo che si vuole qui raccontare, né della finale in sé. Ma della squadra che vinse quella bella sfida tra undici italiani e undici scozzesi, una sfida tra scuole calcistiche e non tra società che combattono a suon di bilanci.
Fino a quell’anno a vincere la Coppa dalle grandi orecchie erano stati solo gli spagnoli (Real Madrid, sei volte), i portoghesi (Benfica, due volte) e gli italiani (Milan, una, e Inter, due volte). Ancora nessuna squadra britannica era riuscita nell’impresa.
L’Inter di Angelo Moratti negli anni ’60 era una delle squadre più forti al mondo, aveva battuto il grande Real Madrid ai quarti di finale. Il mago Helenio Herrera dalla panchina dirigeva alcuni dei più grandi e cari (ma qui si parla di affetto non del loro valore monetario) giocatori della nostra storia calcistica: Sandro Mazzola, Domenghini, Sarti, Burgnich, Facchetti, Mariolino Corso. E altri con loro.
Eppure, ad alzare la coppa saranno gli avversari, quella squadra scozzese con la maglia a righe orizzontali bianco-verdi che in realtà aveva un cuore tutto irlandese e origini umili e lontane.
Quando fu fondata nessuno immaginava nemmeno lontanamente che la squadra degli immigrati irlandesi avrebbe potuto vincere la Coppa più importante al mondo. Eppure così andò. E fu la vittoria di un popolo.
Che bello ascoltare nel video della finale i tifosi del Celtic uniti intonare il loro inno, You never walk alone e che meraviglia quella voce di bambino che canta così vicino al microfono da distinguersi dagli altri (per il video cliccare qui)). Al fischio finale dell’arbitro fu festa grande in Scozia così come nella vicina Irlanda, a Dublino, a Belfast e Cork, nei villaggi e nelle contrade verde isola.
A fondare il Celtic di Glasgow fu, nel lontano 1888, frate Walfrid per obbedienza al suo Arcivescovo che vedeva in quel gioco, ogni giorno più diffuso, la possibilità di raccogliere fondi per aiutare i bambini che non avevano da mangiare. Tanta era la povertà tra gli immigrati irlandesi, accolti con ostilità dai “padroni di casa”. Basti pensare che in quell’anno dei quasi 12.000 deceduti registrati in città, ben 4.750 erano bambini.
Così, al grido “viva San Patrizio”, con la speranza nel cuore di poter ricevere tanto da dare ai poveri, nei locali della chiesa cattolica di Santa Maria nasce la squadra bianco-verde. “Sembrava una banda di straccioni quella che giocava dietro alla chiesa di Santa Maria, accanto alle lapidi del camposanto”, annotano le cronache del tempo.
E, il 28 maggio dello stesso anno, la prima partita ufficiale contro quelli che da allora saranno i loro più acerrimi avversari, i Rangers Glasgow, squadra nella quale si identificavano i protestanti (una sorta di guerra di religione in formato calcistico). Una partita che ha inaugurato quella che a tutt’oggi è considerata la più accesa rivalità tra due squadre di calcio.
Fin dal 1903 sulla maglia del Celtic campeggia un quadrifoglio, antico simbolo di fortuna. In Irlanda si dice che a metterlo sotto il cuscino si fanno bei sogni.
Con la scelta di quel fiore, però, i fondatori del Celtic volevano anzitutto rendere onore a San Patrizio, patrono della verde Irlanda, che si dice spiegasse ai fedeli la Trinità usando il trifoglio: una foglia per il Padre, una per il Figlio e una per lo Spirito Santo. E con il tempo aggiunse anche la quarta fogliolina, per spiegare la fortuna, cioè la grazia di Dio.
E come il trifoglio si è trasformato in quadrifoglio, così quel manipolo di “straccioni irlandesi” si è trasformato in una squadra di calcio vera, capace, almeno allora, di competere a tutti i livelli. E i calciatori dei veri Lions che, come per miracolo (sogno avverato a proposito del trifoglio), a Lisbona conquistarono il più importante dei trofei continentali, con un 2 a 1 rimasto negli annali nel calcio.
I calciatori che vinsero il trofeo erano cresciuti tutti nel vivaio della squadra ed erano nati a non più di trenta chilometri dallo stadio, il Parkhead di Glasgow, che i tifosi hanno rinominato The Paradise.