Rubin "Hurricane" Carter, campione innocente
Tempo di lettura: 4 minuti«Here comes the story of the Hurricane,/ the man the authorities came to blame/ For something’ that he never done./ Put in a prison cell, but one time he could – a been/ The champion of the word (Ecco la storia di “Hurricane”, l’uomo che le autorità accusarono di una cosa che non aveva fatto e lo imprigionarono, ma sarebbe potuto diventare il campione del mondo)». Rubin Carter era infatti destinato a diventare campione del mondo dei pesi medi. È diventato, invece, simbolo dell’ingiustizia e il protagonista di una delle canzoni più belle e famose di Bob Dylan.
Il pugile era stato arrestato nel 1966 insieme a John Artis, con l’accusa di aver commesso un triplice omicidio durante una rapina nel New Jersey. Rubin urla da subito la sua innocenza e, durante la carcerazione (che durerà ben 19 anni), scrive la sua autobiografia, “ The 16th Round”. Bob Dylan legge il libro e decide di andare a fargli visita in carcere e di aiutarlo. Il cantautore americano, qualche giorno dopo, infatti, organizzerà un concerto al Madison Square Garden per raccogliere fondi per pagare la difesa del pugile. E scriverà Hurricane, destinata a diventare una delle sue canzoni leggendarie.
Rubin Carter era nato nel New Jersey il 6 maggio 1937, in una famiglia numerosa. Fin da piccolo si mette nei guai e già a 14 anni finisce in riformatorio. Scappa e si arruola nell’esercito americano, dove non calma il suo carattere bollente. Torna a casa e viene nuovamente arrestato. Durante la detenzione scopre la boxe. Una volta libero, diventa pugile professionista, un peso medio. Anche se non alto, come richiederebbe la categoria, è possente e aggressivo. Presto la gente, impressionata dalla sua potenza, comincerà a chiamarlo “Hurricane”, Uragano.
Comincia, combattimento dopo combattimento, a scalare le classifiche americane. Nel 1963, il suo nome è noto, compare tra i primi dieci pesi medi nel Ring Magazine. Batte, nel dicembre dello stesso anno, Emile Griffith, ex campione del mondo. Rubin è pronto per sfidare il campione del mondo in carica, Joey Giardiello, italo americano e bianco.
Il 14 dicembre 1964 Hurricane subirà la prima ingiustizia della sua vita, come testimoniarono i fischi che coprirono la lettura del verdetto che lo vide perdente. Ingiustizia dietro la quale forse si nasconde una motivazione razzista o forse, e più probabilmente, un giro di scommesse clandestine collegato al mondo del pugilato.
L’ingiustizia subita sembra fiaccare la potenza pugilistica di Rubin Carter, che continuerà a boxare con esiti più incerti. Fino alla tragica notte del 17 giugno 1966. Nelle prime ore dell’alba due uomini di colore entrano nel Lafayette Bar and Grill di Patterson, la città natale di Rubin. Tentano una rapina. Due persone muoiono sul colpo ed una terza un mese dopo per le gravissime ferite riportate.
Rubin è lontano dal locale, ma la sua sfortuna è guidare una macchina simile a quella notata da una testimone. Viene fermato dalla polizia mentre viaggia con l’amico John Artis. Nella sua auto trovano una pistola calibro 12, simile a quella usata nella tragica rapina. I due vengono condotti sul luogo del delitto, ma nessuno dei presenti li riconosce.
Testimonieranno in seguito contro di loro Alfred Bello e Arthur Bradley, due noti criminali della zona. Nel maggio del 1967 il pugile subisce la prima condanna all’ergastolo. La ritrattazione di Bello e Bradley riapre il caso e inizia un nuovo processo. Ma la speranza dura poco. Anche questo dibattimento va male e i due vengono spediti nuovamente in carcere; pena confermata: ergastolo.
Ma Rubin non si arrende e continua a proclamare la sua innocenza. Non è più solo ora. Oltre Bob Dylan, anche Joan Baez e Muhammad Ali lo sostengono nella sua lotta contro l’ingiustizia.
Viene scarcerato diciannove anni dopo, soltanto nel 1985, quando la Corte Federale ordina la sua liberazione e quella di Artis in quanto «vittime di un processo non equo e basato su pregiudizi razziali». In tutti questi anni Rubin ha usufruito soltanto di un breve periodo di libertà nel 1976, il resto è carcere duro.
Rubin Carter morirà a Toronto, malato di cancro, il 20 aprile 2014. Alla sua morte, Artis dirà: «Tutti coloro che sono stati ingiustamente incarcerati hanno perso un campione. Ha dedicato la sua intera vita ad aiutare le persone che avevano bisogno della stessa assistenza e dello stesso aiuto di cui abbiamo avuto bisogno anche noi, che siamo stati accusati, puniti e finiti in prigione senza ragione e senza giustizia
».
A noi piace ricordarlo con altri versi della canzone di Bob Dylan: «Rubin could take a man out with just one punch/ But he never did like to talk about it all that much./ It’s my work, he’d say, and I do it for pay/ And when it’s over I’d just as soon go on my way/ Up to some paradise/ Where the trout streams flow and the air is nice/ And ride a horse along a trail» ( «Rubin avrebbe potuto far fuori un uomo con un pugno/ ma non gli era mai piaciuto parlare troppo di questo./ “È il mio lavoro”, diceva, “E lo faccio per i soldi”/” E quando sarà finito me ne andrò veloce per la mia strada su in qualche paradiso della natura dove nuotano branchi di trote e l’aria è limpida/ e dove si può fare una corsa a cavallo lungo i sentieri»).