Notes, 7 febbraio 2014
Tempo di lettura: 1 minuteSanti e peccatori. Parlando di re Davide, la radice di Iesse dalla quale discende nostro Signore Gesù Cristo, il Papa ha rammentato come la sua figura sia insieme quella di un grande peccatore e di un grande santo. Davvero bella questa immagine, ché Davide è la figura dell’Antico Testamento che più di altre testimonia la predilezione di Dio e la Sua misericordia. Ché la santità non è un bollino blu che si ottiene grazie al nostro sforzo morale, ma un dono che il Signore regala ai poveri peccatori.
Un tempo, nella prima cristianità, santi erano designati i battezzati; col tempo la parola ha indicato qualcosa di più specifico. In realtà per essere santi basta essere in grazia di Dio. Così appare di assoluta semplicità e conforto quella frase di don Giacomo Tantardini: «Chi si confessa bene diventa santo». Non solo a indicare un paziente cammino cristiano – ma la pazienza è anzitutto del Signore: Lui che attende, che lavora i nostri poveri cuori – che alla lunga porta il dono della santità, quella santità ordinaria che fa la “vita buona”. D’altronde il tempo, quando è affidato alla misericordia del Signore, favorisce quel tornare bambini che spalanca le porte del paradiso, già qui su questa terra. Ma già in quell’atto, nella semplice confessione, come spiega il catechismo, si acquista quella grazia santificante che Dio concede all’ultimo peccatore per Sua infinita misericordia. Come accadde a Disma sulla croce. Assassino pentito che ha preceduti tutti i santi nel Suo Paradiso.
Così che la salvezza non è affidata allo sforzo di un’impossibile quanto algida perfezione personale, quanto alla misericordia del Signore, in quell’abbraccio del Padre al figliol prodigo che racchiude in sé tutta la commovente dinamica cristiana. «Quotidianamente figliol prodigo io sono, spero tu sia»: è una delle più felici intuizioni di don Luigi Giussani.