Superlega: per una volta anche i ricchi piangono
Tempo di lettura: 3 minutiIl super progetto calcistico dei sedicenti 12 “top club” europei è crollato come un castello di carte nel giro di 48 ore sotto il peso degli attacchi incrociati.
In primis i tifosi delle squadre inglesi e di (quasi) tutte le altre squadre coinvolte nel progetto. Poi le dichiarazioni di molti autorevoli big del pallone che hanno parlato di tradimento: da Rumenigge a Boniek, da Ranieri a Guardiola, da Toni Kroos a Gary Neville, a tanti altri, anche tra quanti questo folle progetto voleva coinvolgere.
Poi le durissime prese di posizione di tanti esponenti politici, a iniziare da Boris Johnson, il vero vincitore della partita, a Macron e Draghi, per rimanere ai soli capi di Stato.
Da ultimo la stampa specializzata e non, che ha cominciato a sparare a palle incatenate contro l’improvvida iniziativa, forse subodorando prima di altri, allenata com’è a fiutare il vento, come sarebbe andata a finire.
È andata a finire come doveva, con i ricchi club che si sono sfilati a uno a uno, a cominciare dagli inglesi, dal progetto sponsorizzato dalla nota banca d’affari J. P. Morgan, che nel frattempo riceveva anche una “scomunica” da parte di Standard Ethics “agenzia di rating indipendente sulla sostenibilità con sede a Londra, che declassa la banca Usa perché in contrasto con le migliori pratiche di sostenibilità”.
Doveva essere la scialuppa di salvataggio per 12 dei club più indebitati d’Europa: speriamo che possa diventare il punto di partenza per riequilibrare i pesi di un potere che, fino a ieri, si era completamente dimenticato della sua forza, i tifosi, o, in termini social, i like, credendo, errore frequente negli arroganti, di poter fare tutto quel che gli pare.
Non siamo nel Paese delle meraviglie e siamo consapevoli che il progetto non è naufragato perché ha vinto la concezione di un calcio romantico che non esiste più da decenni. Il calcio è un’industria, molto importante.
Ma ha delle sue regole: la più importante è, per dirla con Pep Guardiola, “quando non esiste relazione tra l’impegno e il risultato, non è più sport”. Se non c’è competizione, non c’è sport e non può esserci industria sportiva.
La cosiddetta Superlega aveva la colpa di trasformare lo sport più amato al mondo in un circo (o, meglio, di portare al parossismo e rendere irreversibile il – quasi – circo attuale).
Per una volta, la volontà popolare e la politica, che tale volontà deve comunque tenere presente, ha vinto contro la follia dell’élite. Ma torniamo a Boris Johnson, che è stato il vero protagonista della lotta contro la cosiddetta Superlega.
Nel resto d’Europa la condanna politica e calcistica avrebbe potuto prendere la piega di una disputa legale: Francia e Germania si erano assicurate che le loro squadre non aderissero, lasciando all’Uefa il ruolo di gendarme.
Ruolo che questa ha assolto bene, dato che la minaccia di escludere squadre e calciatori da tutte le competizioni era tale da incenerire qualsiasi velleità. E, però, nessuno ha fatto, né poteva fare – dati gli impedimenti burocratici che infestano Bruxelles – quel che ha fatto il premier britannico, il quale ha minacciato sanzioni pesantissime contro le squadre reprobe e i suoi avventurosi proprietari, che a Londra fanno affari.
Una manovra a tenaglia, dato che è stata supportata dai tifosi inglesi, i quali hanno protestato molto più di altre tifoserie, supportati anche dai calciatori: ha avuto giusta eco la chiama del capitano del Liverpool, la squadra albionica con più titoli internazionali, a tutti i capitani delle squadre britanniche per far fronte comune contro i propri padroni.
Così a rigettare la cosiddetta Superlega è stato anzitutto il calcio, quello vero, che per una volta ha vinto sui giochi dei prepotenti del circo pallonaro.
Ma anche la perfida Albione, ché una volta sfilate alla cosiddetta SuperLega le squadre britanniche, di questa non è rimasta che cenere, con la quale i prepotenti di cui sopra sono stati costretti a cospargersi il capo. Anche loro, per una volta, hanno conosciuto la polvere, quella che in genere riservano ad altri.
Così, paradossalmente, a salvare il calcio europeo è stata la Brexit, a indicare che il destino del continente, nonostante i giochi geopolitici che dividono, è destino comune.
Per quanto riguarda il biondo premier albionico, il suo destino gli sta riservando soddisfazioni impreviste: non solo ha vinto la partita pandemica, avendo vaccinato gran parte della popolazione con il resto d’Europa che arranca, ma ha anche incassato le laudi del popolo pallonaro. Una doppietta niente male.