A Mosul
Tempo di lettura: 4 minutiNegli ultimi giorni sembra che la parabola folgorante dell’Isis sia in fase (momentaneamente) calante. Un giro di vite iniziato con la caduta di Dabiq, in Siria, ad opera delle milizie filo-turche, proseguito poi con l’inizio dell’offensiva delle forze dell’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti contro Mosul, in Iraq.
Un uno-due a forte impatto simbolico, che nel mondo esoterico del quale si nutre la follia del Califfato ha un impatto forte. Dabiq infatti è il luogo nel quale tale follia situa l’Armageddon, la battaglia finale tra bene e male. Tanto che Dabiq si chiama anche la più importante rivista edita dall’Isis.
Mosul, invece, in tale follia ha un’importanza storico-politica: la presa della città irachena da parte dell’Agenzia del terrore segnò la sua epifania al mondo. Tanto che da allora tale città, insieme a Raqqa in Siria, è diventata il cuore pulsante del Califfato proclamato dallo Stranamore islamista di nome al Bagdadi.
Ora Mosul è sotto attacco. Un attacco immaginato da anni e preparato da mesi. Alle circa 8mila camicie nere dell’Isis asserragliate in città si contrappongono i 40mila uomini della coalizione guidata da Washington.
Una coalizione alquanto eterogenea, quella attaccante, formata anzitutto dall’esercito regolare iracheno, al quale si sommano le milizie sciite che fanno riferimento all’Iran, i peshmerga curdi, le forze filo-turche e le forze speciali d’Occidente (ma non si deve dire). Un coacervo di forze e interessi convergenti e contrapposti, tanto che non mancano frizioni frenanti fra gli attaccanti. Con il rischio alto di incidenti di percorso.
A frenare anche il fatto che la città conta un milione e mezzo di abitanti. Civili che l’Isis vuole usare come scudi umani, come riportano i media mainstream.
Esattamente quel che accade ad Aleppo Est nell’ambito delle operazioni governative per liberare la città da analoghi terroristi (leggi al Nusra e suoi alleati jihadisti). Ma in quel caso la narrativa mainstream è molto diversa e di segno opposto: in quell’ambito non si parla di «ostaggi» e «scudi umani», ma solo di civili innocenti bersagliati da un regime sanguinario.
A Mosul è previsto un attacco a più direttrici: come spiega il Generale al Barwari, capo della Golden division antiterrorismo irachena, intervistato da Repubblica del 18 ottobre, che dettaglia: «Non possiamo pensare di condurre le operazioni sul terreno senza raid aerei». Anche qui è esattamente quel che avviene ad Aleppo… ma in questo caso a bombardare sono i top gun americani, e la narrativa ufficiale assume tono diverso.
Interessante un altro passaggio dell’intervista di al Barwari, il quale dichiara che sono «stati aperti due corridoi per permettere ai jihadisti la fuga da Mosul verso la Siria». Cosa che ha fatto allarmare i siriani, i quali paventano un ingresso in massa di miliziani dell’Isis nel loro territorio.
Anche Sergej Lavrov, il ministro della Difesa russo, ha mosso critiche non proprio velate a questa strana strategia, spiegando che Mosca valuterà quanto accade «per prendere adeguate decisioni sia di natura politica che militare».
Il rischio è che si ripeta quanto accaduto in altre operazioni militari compiute dalla coalizione internazionale in Iraq, nelle quali è stato consentito appunto questo transito.
Un doppio vantaggio per gli Stati Uniti, che oltre a conseguire un successo strategico e mediatico, di fatto inviano rinforzi agli jihadisti impegnati nel conflitto contro Damasco, che Washington intende far capitolare.
Evidentemente per gli strateghi Usa anche l’Isis può essere usato come una pedina in questo sanguinario risiko, nonostante abbia firmato attentati terroristici in tutto l’Occidente. Risvolto ironico degli alti proclami anti-terrorismo seguiti agli stessi.
Da capire quanto costerà alla popolazione civile la lotta per la liberazione della città. In altre circostanze l’esercito degli Stati Uniti non si è fatto troppi scrupoli. Basti ricordare la mattanza di Fallujia (vedi nota precedente).
Ma ora è diverso. L’Occidente è impegnato in una propaganda ossessiva per criminalizzare in tutti i modi la campagna di Damasco per liberare Aleppo Est, in particolare battendo sulle vittime civili che essa comporta.
Così un attacco in stile Falluja renderebbe vana tale propaganda, che finora ha frenato non poco i militari siriani. Ne conseguirebbe, infatti, che Assad potrebbe procedere più liberamente alla riconquista di Aleppo, che cadrebbe in pochi giorni.
In questo modo, per gli americani la vittoria di Mosul si trasformerebbe in sconfitta, dal momento che la riconquista di Aleppo da parte del governo siriano rappresenta lo scacco di tutta la strategia Usa degli ultimi cinque anni in Medio oriente.
Un rebus di difficile composizione, che forse sarà oggetto di colloqui sottotraccia tra russi e americani che, nonostante il gelo, continuano.
A favorire un accordo potrebbe giocare una circostanza.
Una vittoria a Mosul, infatti, favorirebbe Hillary Clinton, che presenta la sua presidenza come continuità obamiana. Mostrare al mondo lo scalpo dell’Isis potrebbe giovare non poco alle aspirazioni presidenziali dell’ex Segretario di Stato. E la tempistica dell’attacco alla città, a lungo procrastinato, sembra indicare che proprio quello è l’obiettivo vero di questa battaglia.
Certo, anche la liberazione di Sirte in Libia, sempre sotto il tallone dell’Isis, potrebbe essere utilizzata allo scopo. Ma evidentemente le cose in Libia si sono fatte più complicate del previsto, tanto che le operazioni militari, che prevedevano un facile blitzkrieg, languono. Da qui l’accelerazione su Mosul.
Il problema è che la forza, anche quella di una iper-potenza, non sempre è sufficiente a sbrogliare matasse. La complessità dei fattori in gioco nel labirintico Medio oriente sta evidentemente mandando in confusione gli Stranamore del Pentagono.
I demiurghi della destabilizzazione si trovano invischiati nella confusione che essi stessi hanno creato con le “guerre neocon”. La destabilizzazione del Medio Oriente ha creato un nuovo Vietnam.
Allora gli antagonisti di Washington sapevano muoversi con più agio tra giungle e risaie, tanto da avere la meglio sulla preponderante forza del nemico. Quel che accade oggi nella giungla della “destabilizzazione organizzata” nel quale sono stati precipitati l’Africa settentrionale e il Medio Oriente.