Chi vince e chi perde con Trump
Tempo di lettura: 3 minutiAncora alto il polverone dopo la vittoria di Donald Trump, anche perché tutti i politici e media mainstream sono rimasti spiazzati dal risultato, essendo certi, causa cecità, dell’esito opposto.
La vittoria di Trump va ben oltre i ristretti confini americani. Esercizio difficile prevedere il futuro, ma si possono delineare alcune prospettive in base alle dichiarazioni programmatiche del tycoon (da verificare: un conto è una campagna elettorale un conto governare).
Anzitutto l’elezione di Trump è una vittoria di Putin. Non perché il miliardario americano abbia coltivato qualche fantasiosa intelligenza col nemico, come da accuse dei suoi paranoici avversari, quanto perché i suoi propositi di un rinnovato dialogo con la Russia, più che auspicabile stante le attuali spinte conflittuali, rispondono a una inevasa richiesta moscovita.
Putin vuol far ritornare la Russia grande potenza, ma sa bene che tale ambizione non può riuscire in conflitto con l’Occidente, devastante per il suo Paese.
Peraltro un rapporto con l’Occidente gli è necessario per la prosperità della Russia, che oggi basa la sua ricchezza sulla sola esportazione del petrolio.
Si tenga presente, tra l’altro, che l’ambizione imperiale russa è vista come una sfida in Occidente anche perché non concordata preventivamente, come avvenne al tempo di Yalta dove furono poste basi ma soprattutto limiti a tale espansione.
Val la pena ricordare che il 9-11 del 1989 cadeva il Muro di Berlino, evento che certi ambiti occidentali usarono per tentare di polverizzare la Russia.
La vittoria di Trump del 9-11-2016 potrebbe chiudere questa fase disastrosa nei rapporti tra Oriente e Occidente.
Una riconciliazione che favorirebbe sicuramente la risoluzione della conflittualità del mondo arabo, con conseguente attutimento del Terrore globale.
Altra sicura vincitrice è Marine Le Pen, il cui partito è quello che più incarna in Europa il senso profondo della rivolta plebea fatta propria, successivamente, da Trump (vedi articolo precedente).
L’esito delle presidenziali Usa la sdogana definitivamente e ad aprile del 2017 ha chance reali di diventare presidente della Francia.
Così se Angela Merkel può tirare un respiro di sollievo riguardo la crisi ucraina, che potrebbe risolversi nell’ambito del dialogo russo-americano, ha di che preoccuparsi per un possibile revanscismo francese, di cui la Le Pen è portatrice.
Ciò porterebbe a una revisione dell’attuale status dell’Unione europea, decretando la fine dell’attuale egemonia tedesca sul Vecchio Continente. Con sollievo di molti, in Europa e nel mondo.
Vincono i fautori della Brexit, che una sentenza dell’Alta Corte inglese ha recentemente messo in dubbio rimandando la decisione al Parlamento di Londra. La vittoria dell’isolazionismo di Trump, infatti, si situa in continuità con quella del Leave e la rafforza.
Detto questo la Brexit e l’isolazionismo americano, pur in controtendenza rispetto la globalizzazione, non ne decretano la fine. Essa resta dato irreversibile, ma potrebbe mutare di forma.
Da questo punto di vista inutile illudersi: anche la Finanza globale troverà un modus vivendi con i nuovi padroni del vapore, anche se, almeno in America, potrebbe conoscere dei limiti quel meccanismo di rapina che risucchia ricchezza alla classe media e povera per consegnarla alle banche e ai padroni di Wall Street. E se ciò avverrà in America potrebbe avvenire anche altrove.
Da vedere la questione cinese: Trump, come e più di Obama, ha individuato nello sviluppo economico del Dragone una minaccia alla produzione americana. E però Pechino è troppo importante per l’economia degli Stati Uniti e la finanza globale.
Due dati confliggenti, che potrebbero portare a una prosecuzione dell’attuale linea di contrasto alla Cina o a un accordo su basi da individuare. Magari da ricercare allargando alla Cina il tavolo delle trattative con Mosca. Sul punto gravano incognite e variabili, che pesano sul destino dei Paesi finora usati dagli States per contenere la Cina, in particolare il Giappone.
Vince Benjamin Netanyahu, che la vittoria della Clinton avrebbe condannato all’uscita di scena come già successe al tempo del marito Bill (la cui presidenza si accompagnò all’ascesa in Israele del laburista Ehud Barak).
L’asse Tel Aviv-Washington potrebbe ristabilirsi come ai tempi del duo Ariel Sharon-George W. Bush (non certo di fausta memoria), dopo anni di gelo al tempo di Obama. Ciò, però, potrebbe comportare una denuncia dell’accordo sul nucleare iraniano, vera ossessione del premier israeliano.
Possibili attriti con Teheran potrebbero sfociare in qualcosa di più serio. Un conflitto in confronto al quale quelli avvenuti nel mondo arabo in questi anni risulterebbero banali scaramucce.
Si spera che nell’ambito di un dialogo Washington-Mosca, alla quale Teheran è legata a doppio filo, possano trovarsi soluzioni. Utili, allo scopo, anche i nuovi rapporti tra Putin e Netanyahu.
Ps. Perde, tra gli altri, anche Renzi. La vittoria della Clinton avrebbe rinvigorito quella ventata liberal di cui è bizzarro esponente. Da ieri il “No” al referendum costituzionale sembra appartenere al destino. Un destino infausto che coinvolgerà anche il suo pretenzioso promotore. Ma de minimis non curat praetor.