Gerusalemme: il voto all'Onu
Tempo di lettura: 4 minutiLa condanna all’Onu della dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale di Israele è passata con una maggioranza schiacciante, come previsto. A nulla sono valse le minacce del presidente americano, il quale ha promesso di prender nota dei cattivi a futura memoria.
Minacce reiterate nel post voto da Nikki Haley, ambasciatrice con l’elmetto degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Minacce da bulli, come da commento di tanti, o in stile mafioso, per ricorrere a un esempio più nostrano.
Una sconfitta che i voti contrari alla mozione hanno esaltato: a Israele e Stati Uniti, infatti, si sono aggiunti solo i voti dei governi di Guatemala, Honduras (1), Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau. Togo Tonga… con tutto il rispetto per i cittadini di tali nazioni, mancavano solo Paperopoli e Topolinia per fare l’en plein.
Peraltro è evidente che tali Paesi hanno votato contro la mozione non tanto perché immaginano un diverso futuro per Gerusalemme, quanto per non complicarsi il loro.
Così Washington, per poter affermare di aver evitato l’isolamento internazionale, si è ridotta a far la conta degli astenuti e degli assenti, ascrivendoli di diritto alla lista dei contrari alla mozione. Operazione un pochino indebita.
Washington dunque si è ritrovata isolata. Un isolamento da contagio, si potrebbe dire, dove l’untore è Netanyahu, al quale da tempo l’opposizione politica e culturale israeliana rimprovera l’eccesso di assertività, che ha reso Israele isolata come mai prima.
E se è pur vero che tale isolamento è in linea con l’America First agognata da Trump, è vero anche che la declinazione del motto trumpiano non può che essere globale, ché tale è il destino della Potenza globale. E il gioco in solitaria non giova a tale declinazione.
Tra gli astenuti spiccano alcuni Paesi dell’Est: Ungheria, Repubblica Ceca, Lettonia, Romania, Croazia e Polonia. Con tale voto essi hanno inteso anzitutto prendere le distanze dagli altri Paesi della Ue, invece favorevoli.
Una spaccatura che quindi non riguardava strettamente il tema di Gerusalemme, ma altro e indebito.
Peraltro tale situazione rende ancora una volta evidente l’ambiguità che abita tali Paesi, la cui collocazione nell’Unione europea è solo un aspetto della loro ricollocazione “occidentale” avvenuta nel post-comunismo.
Tale ricollocazione, infatti, ha il suo vero fulcro negli Stati Uniti d’America, il Paese che ha vinto la Guerra Fredda contro l’Urss e li ha guadagnati all’Occidente.
Tanto che, già ai tempi, George W. Bush li aveva dichiarati prediletti, contrapponendo la “giovane Europa” dell’Est alla “vecchia Europa”.
Ma al di là dei voti di Paperopoli e delle astensioni politiche di varia natura (importante quella del Canada, che invece ha segnato una distanza inattesa con Washington), va segnalato il commento dell’ambasciatore israeliano all’Onu, secondo il quale la votazione di ieri troverà posto «nella spazzatura della storia».
Un atteggiamento in linea con il senso di Netanyahu per le Nazioni Unite, derubricate a fabbrica di «bugie».
Un concetto che ha reso esplicito e ancor più chiaro in un comunicato post voto, nel quale ha ringraziato «i Paesi che hanno votato insieme a Israele, insieme alla verità».
In tal modo il primo ministro israeliano, voce delle rivendicazioni e delle suggestioni di certa destra israeliana, ha voluto evidenziare che la controversia sul destino di Gerusalemme non è politica, ma essenzialmente religiosa.
Non si tratta di rivendicare dei diritti politici, ma di attenersi o andar contro alla Verità. Una visione speculare a quella degli ambiti islamisti estremi, per i quali il destino di Gerusalemme sarà islamico o non sarà.
Se si resta nell’ambito della contrapposizione religiosa la controversia è destinata a perdurare.
Val la pena accennare anche a come l’annuncio di Trump sia caduto come una bomba sui rapporti tra Israele e Arabia Saudita.
E se prima la nascita di un esplicito asse Tel Aviv-Ryad per contrastare l’Iran appariva cosa fatta, oggi non più. Così se da una parte Netanyahu capitalizza su Gerusalemme, rischia di perdere altrove. E non poco, dal suo punto di vista.
L’ipotesi della costituzione di un esplicito asse Tel Aviv-Ryad potrebbe ritornare solo se si intraprendesse la via saudita al processo di pace. Via che però oggi appare più impervia.
Non solo per le difficoltà innestate nel rapporto tra Ryad e Tel Aviv di cui sopra, ma anche perché il presidente dell’autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha dichiarato, non senza ragione, che nel momento in cui gli Stati Uniti hanno sposato le ragioni di una parte sono decaduti da quel ruolo super partes che li rendeva in grado di sostenere e supervisionare i negoziati.
Fin qui le variegate conseguenze sul piano internazionale. Val la pena però anche annotare quelle interne agli Stati Uniti.
In altra nota avevamo riportato come Trump avesse preso l’iniziativa su Gerusalemme per compiacere i neocon, suoi acerrimi nemici. Un cedimento che puntava ad ammorbidire la stretta sul Russiagate (che in effetti si è allentata ex post).
Eppure oggi il Corriere della Sera pubblica un intervento molto aspro nei confronti del presidente americano a firma di Bernard-Henri Lévy.
«Non credo», scrive Levy, «che un colpo di dadi né un poker politico, non credo che un riconoscimento diplomatico mal negoziato e avulso da ogni tentativo di pace globale e giusta sia in grado di rafforzare ciò che resta, a mio avviso, l’essenziale: la legittimità di Israele, a fianco del futuro Stato palestinese
»
E conclude: «Sarebbe stato infinitamente meglio calare questa carta vincente […] all’interno di un vero piano di pace, il solo in grado di garantire l’inalienabile diritto di questo Paese all’esistenza e alla sicurezza. Ma il 45° presidente degli Stati Uniti non se ne è curato minimamente: mirava alla spacconata politica, non a scrivere la storia
».
Un commento a doppia valenza: analizza in maniera intelligente l’errore della “trovata” di Trump. Ma anche che i neocon, di cui Levy è uno dei più autorevoli portavoce, non sono tutti soddisfatti.
Da questo punto di vista la mossa presidenziale è stata vana. Ne ha compiaciuti alcuni, non altri: la loro lotta contro la sua presidenza è dunque destinata a riprendere forza.
Insomma, tante e complesse le conseguenze dell’iniziativa gerosolimitana del presidente Usa. Un intreccio che solo il tempo dipanerà.
(1) In questi giorni l’Honduras era di elezioni. Quattro giorni fa ha vinto il presidente precedente, Orlando Hernandez, ma il voto è stato molto contestato per evidenti anomalie, tanto che nessun leader internazionale si era congratulato con lui, riconoscendo la legittimità della sua vittoria. Oggi, subito dopo il voto all’Onu, gli Stati Uniti si sono finalmente congratulati con lui… il mondo gira così.