Moro e l'umanista dell'Osservatore
Tempo di lettura: 6 minutiQuella che pubblichiamo è una lettera inedita di Guido Gonella, illustre esponente politico della Democrazia cristiana, consegnata ai familiari nei giorni bui del rapimento di Aldo Moro. È datata infatti 2 maggio 1978, pochi giorni prima del tragico epilogo di quella oscura vicenda, iniziata il 16 marzo con il rapimento dello statista democristiano e l’uccisione della sua scorta (oggi ricorre l’anniversario).
La rendiamo nota per gentile concessione della famiglia, anche perché crediamo che abbia un certo valore storico. Questo il testo della missiva:
«Nel caso in cui fossi catturato non credete ad alcun scritto o parola che mi fosse attribuito dagli aggressori. Per la mia liberazione non fate nulla che sia in contrasto con i doveri morali e civili. Auguro che ogni mio sacrificio sia utile alla causa per la quale ho combattuto in tutta la mia vita. Abbraccio i miei figli diletti, le loro famiglie, i miei cari amici e collaboratori, e confido che preghino con me per la salvezza della mia anima e perché Dio sia misericordioso verso questo suo figlio che desidera morire nella sua fede cristiana». Firmato Guido Gonella.
Diversi gli spunti di interesse di tale scritto. Ne accenniamo di seguito in un articolo forse troppo lungo per la lettura via internet (ma si può stampare). Purtroppo l’analisi della missiva necessita di uno sviluppo articolato. Ce ne scusiamo con i lettori.
Anzitutto va rilevato come nella sua lettera Gonella chiede ai familiari di non dare alcun peso a scritti e parole che gli fossero attribuiti in caso di rapimento. Un’indicazione importante perché evidenzia la percezione che lo scrivente aveva riguardo le lettere che Moro inviava dalla dura prigione brigatista.
Su tali scritti si è svolto, negli anni, un dibattito notevole, in particolare sulla loro autenticità e la possibile costrizione subita o meno da Moro nel redigerli. Non interessa in questa sede riprendere l’articolato dibattito che, al di là delle diverse interpretazioni, ha visto una convergenza riguardo la loro genuinità.
Val la pena, però, accennare che nella sua lettera Gonella mostra di non ritenere affatto autentiche tali missive (il cosiddetto Memoriale sarà ritrovato solo in seguito). O quantomeno reputa siano state estorte allo statista dai suoi feroci carcerieri. Il fatto che tale convinzione fosse affidata a una lettera privata della quale non era prevista né richiesta postuma pubblicizzazione rende tale convinzione scevra da ogni retroscena di carattere politico.
Così la missiva di Gonella rende l’idea di una convinzione che, di là del dibattito sul tema, aleggiava in quei giorni all’interno della Democrazia cristiana, o in parte di essa, e nell’intero Paese (sui giornali, ad esempio). Una considerazione che va tenuta presente anche per capire meglio il complesso clima, anche psicologico, che si respirava nell’Italia del tempo.
Ma al di là delle indicazioni psicologiche fornite dalla lettera in questione, essa ha anche altra e più importante valenza.
È possibile che anche altri esponenti democristiani abbiano scritto missive simili in quei terribili giorni, tra questi sembra Paolo Emilio Taviani. E però è sicuro che non c’era alcun ordine di scuderia in proposito. Così appare alquanto strano che a redigere un documento del genere sia stata una figura come Guido Gonella.
Fondatore della Democrazia cristiana insieme ad Alcide De Gasperi, egli fu uno degli uomini politici più rilevanti del dopoguerra: non solo nel partito che aveva contribuito a fondare, ma anche nell’ambito dello Stato. E però la sua storia politica si era di fatto esaurita con la morte di De Gasperi, del quale rappresentava una sorta di anima gemella.
Certo, aveva ricoperto alcuni incarichi importanti anche successivamente, come una sorta di saggio decano al quale ricorrere in particolari circostanze, ma al tempo del rapimento Moro quell’impegno pubblico apparteneva al passato ed egli era ormai fuori da ogni gioco politico di rilievo. Eppure, nonostante fosse uomo rigoroso e affatto incline a indulgere al timore (per lui parla la storia), si sentiva tanto minacciato da redigere una sorta di testamento spirituale.
Per comprendere tale iniziativa ci può forse soccorrere la storia. Gonella era forse l’esponente della Democrazia cristiana più legato al Vaticano (insieme a Moro e ad Andreotti), e in particolare a Paolo VI. Quel Montini che, giovane monsignore, aveva ricoperto la delicatissima carica di sostituto della Segreteria di Stato e, durante il regime fascista, volle fosse affidato proprio a Gonella l’incarico di redigere una rubrica di Esteri sull’Osservatore romano: gli Acta diurna, che in quegli anni costituì una delle poche voci libere del Paese.
Una rubrica che, grazie all’accuratezza delle informazioni e all’intelligenza dell’illustre cronista, divenne un faro di orientamento non solo per i cattolici ma per l’intero antifascismo italiano, militante e non. Tanto che Gonella subì le conseguenze del caso: arrestato, anche se per pochi giorni (fu rilasciato grazie all’intercessione di Montini), fu costretto anche ad abbandonare l’insegnamento e la sua rubrica.
Insomma, l’esponente Dc aveva un rapporto intimo con Montini. Un filo che non si sarebbe interrotto negli anni. E qui torniamo ai drammatici giorni del rapimento Moro.
Paolo VI ebbe molto a cuore la sorte dello statista sequestrato, uno dei suoi pupilli quando era assistente ecclesiastico della Fuci. Tanto che si spese fino in fondo per la sua sorte, non solo chiedendone ai brigatisti «in ginocchio» la liberazione, ma anche propiziando alcuni tentativi esperiti in tal senso.
Uno di questi è stato rivelato in anni recenti da Giulio Andreotti, che ha parlato a più riprese di un tentativo di accordo con le brigate rosse. Un tentativo giocato sottotraccia, in un negoziato segreto condotto da monsignor Curoni, il coordinatore nazionale dei cappellani delle carceri, grazie a un contatto con un detenuto. La trattativa prevedeva il rilascio di Moro in cambio di una somma di denaro.
Un tentativo condotto di comune accordo tra Andreotti, allora capo del governo, e Paolo VI tramite il suo segretario personale, monsignor Pasquale Macchi. E che si era quasi concretizzato prima di saltare a causa della mendacità del tramite con i terroristi. Così Andreotti: «Comunque proprio il 9 maggio, mentre Moro veniva ucciso, il falso mediatore stava per avere un colloquio dall’apparenza conclusivo».
È possibile che in tale trattativa, o forse in altre e meno aleatorie rimaste ancora segrete, abbia avuto un ruolo anche Gonella, dato il suo antico legame con Paolo VI e con Andreotti (al quale lo legava il passato fucino e l’antica comune vicinanza a De Gasperi). Proprio queste prossimità facevano di Gonella il tramite ideale tra il Presidente del Consiglio e il Papa.
Un tramite ideale anche sotto un altro profilo: la sua marginalità rispetto ad altre figure della Dc gli consentiva una libertà di azione (e di “discrezione”) impossibile ad altri.
Si tratta solo di un’ipotesi. Il rigore morale di Gonella, che sulla vicenda Moro e altro ha conservato una riservatezza assoluta anche con i familiari, non ci consente di dare ulteriori elementi in proposito.
E però, un possibile ruolo di Gonella in tal senso sembra potersi desumere anche da un altro piccolo indizio. Nella lettera dal carcere brigatista recapitata a Benigno Zaccagnini il 24 aprile (alcuni giorni prima della missiva-testamento di Gonella), nella quale usava toni molto duri contro la Dc e “preannunciava” il suo prossimo assassinio, Moro faceva cenno proprio a Gonella, indicandolo come «umanista dell’Osservatore».
Tanti e diversi hanno ipotizzato che tra le righe delle sue missive Moro celasse messaggi in codice per i suoi interlocutori. Messaggi che la sua condizione di prigioniero costringeva all’implicito; un implicito che la sua cultura e la lunga esperienza politica gli consentivano di dosare in maniera mirabile.
Nel caso specifico l’espressione «umanista dell’Osservatore» riferita a Gonella appare alquanto insolita, sia nell’associazione che nella terminologia. Viene richiamata infatti una storia non attuale, ma che riguarda il fascismo: a quel periodo infatti risale la collaborazione di Gonella con il quotidiano vaticano, come a tracciare un collegamento tra la situazione presente e quella di allora.
Ancor più singolare la definizione di «umanista» associata a Gonella: egli infatti non era certo assurto a notorietà per la sua propensione alla cultura classica e alle arti, ma per l’impegno politico e l’attività giornalistica.
Tale termine allora potrebbe rimandare ad altro. Si noti, infatti, che la parola umanista (o umanistica, termini interscambiabili perché di uguale significato) abbia certa qual assonanza con la parola «umanitaria».
E proprio la «soluzione umanitaria» era il tema ricorrente delle missive del rapito; soluzione alla quale affidava le sue speranze di liberazione nell’ambito di una trattativa con i brigatisti.
Peraltro colpisce come il nome di Gonella nella lettera di Moro sia indicato dopo quello di altri esponenti Dc: «Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella». E solo al nome di Gonella è associata una notazione particolare, «l’umanista dell’Osservatore», appunto. Un cenno che non viene speso per gli altri…
Insomma, la missiva a Zaccagnini potrebbe contenere un suggerimento, implicito ma intellegibile ai suoi interlocutori (ai quali lo univano anni di comune militanza e affinità elettive, come accenna anche in quella lettera), di affidare proprio a Gonella il compito di tramite, nel segreto, in una trattativa umanitaria da condurre attraverso il Vaticano.
Il riferimento all’Osservatore romano contenuto nella lettera di Moro, allora, nel richiamare l’antico incarico di Gonella, potrebbe essere un’ulteriore indicazione in tal senso.
Si tratta solo di ipotesi, ma crediamo abbiano certa qual ragionevolezza di fondo.
Colpisce anche la data, prossima a quel fatidico 5 maggio in cui le brigate rosse divulgano il Comunicato numero 9, nel quale viene annunciata la sentenza di morte dello statista Dc.
Giorni delicatissimi dunque, che precipitavano verso la tragedia.
Di per sé, però, tale circostanza non avrebbe dovuto cambiare la percezione del rischio personale da parte di Gonella, data appunto la sua posizione defilata rispetto ai suoi compagni di partito e di altri protagonisti della vita pubblica di allora.
E però è possibile invece che l’incrudelirsi del momento, o qualche incarico particolare, abbia indotto Gonella a percepire un pericolo ulteriore connesso a un suo (possibile) ruolo di mediatore tra Palazzo Chigi e Vaticano.
Un rischio proporzionale alla decisione delle Brigate rosse, o meglio di parte di esse, di chiudere la vicenda in via definitiva, sbarrando la strada a possibili ipotesi alternative.
Val la pena, in conclusione, soffermarsi su un’altra indicazione fornita dal documento inedito. Nella lettera di Gonella le brigate rosse non sono mai indicate con il loro nome, nonostante il riferimento sia palese.
L’esponente democristiano, da uomo di grande intelligenza e da lucidissimo giornalista, sapeva dar peso alle parole, come anche al non detto. Così quella omissione suona alquanto significativa. E va letta nel contesto integrale del documento, nel quale lega quella tragica temperie presente al passato, il contrasto al terrorismo con quello al fascismo, come parte di un’unica lotta per la libertà.
Cenno particolarmente significativo per la percezione che l’esponente della Dc, e non solo lui, aveva della sfida costituita dal terrore brigatista.
Un’ultima nota va infine spesa per evidenziare lo spessore umano che traspare dalla missiva e la profonda fede che la sottende.
Altri tempi, altri politici. La storia della Democrazia cristiana, e di tanta politica italiana, è anche questa. Tenerlo presente aiuterebbe anche a dissipare le nebbie del presente.