Il Referendum (1 parte)
Tempo di lettura: 3 minutiAbbiamo chiesto a un giurista un intervento sulla Riforma costituzionale oggetto del referendum prossimo venturo. Ricevuto, lo pubblichiamo. Data la lunghezza del testo, né poteva essere altrimenti data la materia, sarà pubblicato in tre parti.
Manca poco meno di una settimana al Referendum istituzionale del 4 dicembre e l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale, al termine di un’infinita campagna elettorale avviata sin dalla primavera scorsa, è spazzato da “venti” stranieri molti forti che – è notizia di questi giorni – giungono persino a paventare il fallimento di otto banche italiane – Monte dei Paschi in testa – nel caso in cui prevalgano i “no” alla riforma della Costituzione promossa dal Governo Renzi.
Del resto, è persino ovvio rilevare che la battaglia referendaria assuma un rilievo squisitamente politico sulla tenuta del Governo: e ciò ha segnato sin dall’origine lo schieramento delle forze a favore e contro la riforma.
Nondimeno, almeno due considerazioni suggeriscono di dedicare del tempo al merito del quesito referendario, lasciando per qualche momento da parte le “trombe dell’Apocalisse”.
Per un verso, si tratta di convincersi che, a prescindere dall’esito referendario, il 5 dicembre la campagna elettorale prenderà nuovo avvio per accompagnarci alle elezioni anticipate di primavera: inevitabili sia che si tratti, per Renzi, di incassare la “cambiale” della vittoria al referendum, sia che, all’opposto, si debba certificare la fine della sua (prima) esperienza di governo.
Per altro verso, più in generale, si deve guardare con un certo scetticismo alle “cassandre” di ogni latitudine, puntualmente sconfessate negli ultimi mesi, in appuntamenti ben più importanti di quello italiano – Brexit ed elezioni presidenziali americane in testa –, dato che, citando Obama, “il sole è puntualmente ricomparso all’orizzonte”.
Tanto basta per qualche riflessione intorno alla riforma della Costituzione: con la premessa che, anche sotto il profilo squisitamente giuridico, ci si dovrebbe in primo luogo interrogare sulla legittimità di un Parlamento azzoppato dalla Corte Costituzionale – che nel dicembre del 2013 ha dichiarato illegittime ampie parti della legge elettorale con la quale è stato eletto – a licenziare una così profonda revisione della legge fondamentale della Repubblica.
La riforma. Come noto, la Riforma tocca almeno quattro temi istituzionali: il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, la ridefinizione delle competenze Stato-Regioni e l’abolizione del Consiglio dell’economia e del lavoro (CNEL).
Sul CNEL è un bene che scenda finalmente il sipario: nessuno può seriamente sostenere che questo “cimitero degli elefanti” – di là dalle intenzioni dell’Assemblea Costituente – nel tempo abbia dato prova di qualche utilità per il Paese; semplicemente, le forze politiche, sociali e sindacali hanno scelto altri terreni e altri tavoli per i loro confronti, ed è giunto il momento di prenderne atto. Si tratta, in questo caso, di una modifica costituzionale di facile attuazione, che si potrà fare anche a prescindere dall’approvazione o meno della riforma.
Quanto, invece, alla riformulazione del riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni, le cose si fanno più complicate: l’esigenza della riforma, infatti, a ragione, è rintracciata nella pasticciata revisione del Titolo V della Costituzione che il governo di centro-sinistra approvò a maggioranza nel 2001; quell’intervento ha creato non pochi problemi alla precisa determinazione del riparto delle competenze, soprattutto nell’ambito delle materie di legislazione concorrente.
Si può però dubitare che la riforma approvata dal Parlamento risolva effettivamente i problemi cui si è fatto cenno: infatti, essa, rimescolando nuovamente le carte, riapre la discussione intorno a problemi che – soprattutto grazie alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, già intervenuta in numerosissime occasioni – potevano ritenersi ormai destinati a soluzione.
E d’altra parte, affermando il principio generale in forza del quale, su proposta del Governo, il Parlamento potrà legiferare anche nelle materie riservate alla competenza delle Regioni quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o economica dello Stato, o comunque l’interesse della nazione, reintroduce elementi neo-centralisti e neo-statalisti, di segno opposto alla valorizzazione delle realtà locali, delle aggregazioni sociali e, in definitiva, di una dinamica di sussidiarietà nei rapporti fra le persone, le famiglie, le comunità, le istituzioni (1 di 3, segue).