9 Maggio 2016

In morte di Moro

In morte di Moro
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Il 9 maggio del 1978, in via Caetani, veniva rinvenuto il cadavere di Aldo Moro. Vicenda ancora oscura, che ha precipitato l’Italia in una tragedia dalla quale non si è più sollevata. Tutto impazzì allora.

Per ricordare quella lontana tragedia val la pena ripercorrere un ricordo di quei giorni che ebbe a scrivere Giulio Andreotti sul mensile 30giorni (cliccare qui per l’integrale). Pagine istruttive per tanti versi, anche se scritte con la cautela che caratterizzava il senatore, dove l’implicito ha la “dovuta” importanza.

 

Passaggio interessante dell’articolo è laddove Andreotti divide il rapimento in due fasi: la prima nella quale Moro tenta una mediazione tramite il Vaticano. Un tentativo andato a vuoto, come spiega Andreotti (sul punto vedi anche una Postilla precedente).

 

Da qui la seconda fase, caratterizzata da una decisione del rapito di tentare una mediazione diretta con i suoi carcerieri. L’idea di Moro sarebbe quella di far credere ai brigatisti di aver compreso che il compromesso storico era fallito. E che, se lo avessero liberato, egli sarebbe diventato un fiero antagonista di quel progetto politico e dei due partiti che l’avevano realizzato, la Dc e il Pci appunto.

 

Da qui le pagine durissime contro il Pci, ma soprattutto contro la Dc e i suoi esponenti. E forse, più che un’idea, quella dello statista era una convinzione: probabile che l’operazione del suo rapimento gli abbia fatto capire che ormai non c’erano più le condizioni per un’iniziativa politica così azzardata (che aveva aperto prospettive nuove all’Italia e al mondo). Che, infatti, fallì.

 

Tale interpretazione delle accuse di Moro potrebbe sembrare un’excusatio non petita da parte di Andreotti, al quale una narrazione nera ormai egemone ascrive l’idea di aver lucrato sulla tragedia che si era abbattuta sul suo amico e compagno di partito. Una sciocchezza che contrasta, tra l’altro, con quanto Moro scrive dal carcere brigatista, nella missiva nella quale affida proprio ad Andreotti, e a lui solo tra i tanti cui indirizzava le sue lettere, la sua famiglia.

 

Questa, infatti, la conclusione della lettera ad Andreotti: «Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell’unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia». Una lettera obliata, data appunto la narrazione egemone che, tra l’altro, fa torto anche e soprattutto all’intelligenza e al cuore di Aldo Moro.

 

Ma al di là del punto, val la pena accennare a un altro tema toccato nell’articolo di 30giorni. Andreotti, infatti, scrive che la versione di una trattativa tra Moro e i suoi carcerieri, basata sull’antagonismo futuro dello statista al compromesso storico, si fonda su una prova certa: «In una delle ultime missive [Moro ndr.] chiede alla Camera di trasferirlo dal gruppo Dc al gruppo misto. Penso che quando, il 9 maggio, gli fecero riprendere i suoi vestiti, egli credesse di essere rimesso in libertà. Un condannato a morte non si occupa davvero dell’appartenenza all’uno o all’altro gruppo parlamentare».

 

Questo l’integrale del testo citato: «[…] desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto e le riflessioni che ho riassunto più sopra, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della D.C. Rinuncio a tutte le cariche, escludo qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla D.C., chiedo al Presidente della Camera di trasferirmi dal gruppo della D.C. al gruppo misto. Per parte mia non ho commenti da fare e mi riprometto di non farne neppure in risposta a quelli altrui».

 

Oltre che  per l’interpretazione che attribuisce alle accuse di Moro (1), l’accenno di Andreotti è interessante anche per un altro aspetto: a differenza di quanto egli scrive, il passaggio indicato non è parte di una missiva, ma è la chiosa finale di quello che è stato classificato come un brano del cosiddetto memoriale.

 

Si tratta di un brano che inizia con considerazioni generali proprie di altre pagine del memoriale. Uno scritto descrittivo, a tratti didascalico (per leggere l’integrale cliccare qui).

A un certo punto, però, il tono di Moro cambia bruscamente e lo scritto diventa una vera e propria invettiva contro la Dc e i suoi esponenti, fino alla parte finale in cui ringrazia i brigatisti.

 

Così la parte conclusiva di tale scritto, come da cenno di Andreotti, ha tutte le caratteristiche di una lettera, in particolare per il modo diretto con cui interloquisce e comunica con i suoi interlocutori (interni al cerchio brigatista ed esterni). Molto diverso dalla narrazione didascalica delle prime pagine.

 

Insomma l’insieme dello scritto di Moro sembra in realtà un collage (peraltro fatto male), che unisce due parti diverse: un brano di memoriale e una missiva. Tra l’altro anche la lunghezza di tale scritto, anomala rispetto ad altri brani del memoriale (è infatti la più lunga e di molto),  rafforza tale convinzione.

 

Un collage forse dovuto a una confusa archiviazione degli scritti dello statista da parte dei brigatisti, forse altro (ci riserviamo anche noi il diritto all’implicito). Sta di fatto che quel cenno di Andreotti è una vera e propria rivelazione e pone legittime domande sul cosiddetto memoriale. Si tratta solo di un tassello di un tragico rebus che ancora oggi trova forze ostative alla risoluzione.

 

(1) L’interpretazione di Andreotti sulle accuse contenute negli scritti di Moro, peraltro, coincide con quella del giornalista Mino Pecorelli. Ci torneremo a breve.

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