La debolezza di Erdogan
Tempo di lettura: 3 minuti«La Turchia non farà la fine dell’Iraq e della Siria». Questa la farse che Anadolu, l’agenzia stampa turca, ha usato come titolo di un’intervista rilasciata da Serdar Cam, capo della Turkish Cooperation and Development Agency. Un titolo che sintetizza il momento che sta attraversando la Turchia.
I resoconti di questi giorni denunciano le grandi epurazioni che stanno avvenendo nel Paese a seguito del fallito golpe consumato tra la notte del 15 luglio e le prime ore del giorno successivo. Epurazioni che prevedono l’allontanamento di funzionari statali e magistrati, la rimozione e l’arresto di militari, la chiusura di media e altro.
Se è vero che tali operazioni indicano il consolidarsi di un nuovo potere, è vero pure il contrario: la prova di forza in realtà nasconde la debolezza del presidente Recep Erdogan e, insieme, la sua paura.
La paura è che i centri di potere che hanno ispirato il golpe, esterni (il presidente turco immagina ci sia lo zampino americano) e interni, possano riprovarci. Non solo attentando alla sua leadership, ma anche minando l’integrità territoriale turca. Tale appunto il riferimento a Iraq e Siria.
Erdogan teme insomma che la Turchia possa sprofondare nel caos, come avvenuto per i Paesi vicini (nei quali, in realtà, Ankara ha avuto e ha un ruolo più che oscuro).
E questo può avvenire per spinte provenienti dall’ambito sociale, attraverso una riedizione postuma delle primavere arabe (o rivoluzione colorata che dir si voglia).
Spinte in grado di sfruttare la rete creata dal predicatore Fetullah Gulen, acerrimo avversario di Erdogan esule negli Usa, alla quale afferiscono strutture educative e sanitarie, come anche ambiti dell’apparato statale e militare.
Una rivolta simile a quella avvenuta in Egitto, quando il potere fu consegnato a Mohamed Morsi, nella quale ebbe un ruolo fondamentale la rete occulta della Fratellanza islamica.
Rivolta che potrebbe intrecciarsi con il conflitto aperto con la minoranza curda, la cui aspirazione a uno Stato nazionale suona da tempo ad Ankara come minaccia all’integrità nazionale.
Una rivoluzione che, come si è visto, potrebbe trovare appoggio in ambito militare, con particolare riferimento agli apparati più legati alla Nato, che secondo Ankara non è estranea al golpe, nonostante i dinieghi.
Da qui anche la pressione simbolica sulla base aerea di Incirlik, data in uso agli Stati Uniti d’America.
Nei giorni seguenti il colpo di Stato, Incirlik è stata funestata da vari “incidenti”: prima l’arresto del comandante turco della base, poi l’inusuale ispezione da parte delle forze lealiste; quindi le è stata tolta l’energia elettrica; poi il suo cielo è rimasto a lungo offuscato dal fumo di un gigantesco incendio divampato nelle vicinanze; infine è stata bersaglio di alcune manifestazione anti-americane da parte di militanti dell’Akp.
Erdogan ha impegnato un vero e proprio braccio di ferro con gli Stati Uniti, ai quali sta chiedendo con insistenza l’estradizione di Gulen. E conseguentemente ha accelerato la virata verso la Russia di Putin (che per ora resta più che prudente: non sa se fidarsi o meno del personaggio).
Ciò rende la prova di forza con Washington ancora più accesa e pericolosa per la tenuta della sua leadership.
Se davvero si consumasse la svolta a Est sarebbe un cambiamento epocale degli equilibri del mondo, dato il peso geostrategico di Ankara. L’Occidente, in particolare la Nato, non può permettersi di accettarla passivamente.
Come si vede la leadership di Erdogan è meno solida di quanto possa apparire. La sua vera forza è il suo partito, l’Akp, peraltro alquanto militarizzato, che gli assicura una massa critica di manovra e di consenso. Ma è da vedere se basterà a evitargli rovesci.
Tanti i rischi della situazione. Se da una parte la stretta sulle opposizioni, già fin troppo indiscriminata, può tracimare in una repressione cruenta, dall’altra le spinte disgregatrici potrebbero riprendere forza. Precipitando il Paese in uno scenario iracheno o siriano, appunto.
Una possibilità paventata anche da un anonimo funzionario iraniano, il quale ha confidato ad Alì Hashemi, in un articolo pubblicato da Al Monitor il 19 luglio, che, se riuscito, il golpe «avrebbe potuto innescare conflitti interni». E «la stabilità della regione sarebbe stata seriamente minacciata».
«L’intera regione», dall’Iran al Caucaso, sarebbe rimasta scossa da una nuova ondata di destabilizzazione. Che avrebbe raggiunto anche «l’Europa [vedi alla voce migranti ndr.]».
Il rischio è ancora alto ed Erdogan non sembra in grado di farvi fronte se non con la forza, cosa che aumenta tale rischio. Vedremo.