La Siria, la de-escalation e i forni crematori
Tempo di lettura: 5 minuti«Ogni volta che abbiamo un momento in cui la comunità internazionale dà prova di unità, c’è qualcuno che prova a minare quel senso di speranza producendo un senso di orrore e indignazione
». Così l’inviato Onu per la Siria Staffan de Mistura agli inizi di aprile commentava la notizia dell’asserita strage di Idlib.
Allora Bachar al Assad era stato accusato di aver usato delle armi chimiche, provocando la morte di circa 70 persone. Un’accusa alla quale dedicammo una nota, nella quale richiamavamo altre denunce simili piovute sulla testa di Assad, come pregresso cui far riferimento. Constatazione alla quale aggiungevamo l’anomalia di un attacco chimico tanto inutile quanto inspiegabile.
Inutile dal punto di vista militare (neanche una postazione avversaria conquistata a seguito del presunto attacco chimico), tale attacco, semmai c’è stato, ha però conseguito il risultato di attirare su Assad la riprovazione internazionale.
Una mossa suicida dal punto di vista tattico e strategico, anche perché l’esercito siriano stava vincendo la guerra e non aveva certo bisogno di armi chimiche per conseguire risultati sul campo.
Più volte, dopo l’accaduto, siriani e russi hanno chiesto l’intervento di una commissione d’inchiesta indipendente sotto l’egida dell’Onu per accertare la veridicità delle accuse. Proposta incredibilmente respinta dagli interessati interlocutori.
L’unico accertamento esperito è stato l’esame l’autoptico su alcuni corpi che da Idlib sarebbero stati trasportati in Turchia, Paese irriducibilmente avverso ad Assad. Un esame che avrebbe confermato l’esposizione di quei poveri corpi ai gas. Insomma, una indagine invero poco incisiva: la gravità dei fatti avrebbe meritato ben altro approfondimento.
Né l’illogicità strategica della presunta iniziativa di Assad trovava risposta. Stante che il mantra dei media mainstream si attestava a ripetere la formula che non bisogna ricercare la logica nelle mosse di un regime. E dire che sul piano militare russi e siriani si sono mossi con lucida razionalità, come attestano i risultati sul campo di battaglia. Come spiegarsi allora un intervento criminale tanto controproducente?
Insomma, come accade puntualmente da anni, quando una notizia consegue il risultato di criminalizzare Assad, nello storytelling di questa sporca guerra diventa vera a prescindere, al di là di ogni riscontro e di ogni logica.
Ma torniamo all’inizio del nostro articolo e a Steffan de Mistura, il quale ammoniva che, nei momenti cruciali di questa guerra, quando il cammino sulla via della pace si fa meno impervio, arriva «qualcuno che prova a minare quel senso di speranza producendo un senso di orrore e indignazione».
Bene, solo quattro giorni fa, il povero de Mistura, intervistato dal Corriere della Sera, spiegava che «Sulla Siria stavolta l’intesa è possibile». E questo perché sembrava che la proposta di de-escalation avanzata dai russi trovasse riscontro nella parte avversa, quella per intenderci che sostiene i tagliagole jihadisti che si oppongono ad Assad (Stati Uniti, Turchia Arabia Saudita etc.).
Non passano tre giorni ed ecco la notizia che sembra polverizzare quella inerme speranza. Dagli Stati Uniti arriva l’accusa tremenda: esisterebbe una prigione, a Saydnaya, dove il regime ammasserebbe prigionieri civili in condizioni bestiali, li torturerebbe e, particolare orrorifico, userebbe dei forni crematori per eliminare le prove della sua brutalità. Un’accusa terribile, perché evocativa di altri forni crematori e altri orrori.
Non è la prima volta che si tenta l’operazione di accostare il regime siriano a quello nazista e Assad a Hitler.
Buon ultimo ci aveva provato anche Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, all’indomani dei presunti gas di Idlib, spiegando che a proposito «di gas sarin, Hitler non lo usava contro il suo popolo nello stesso modo in cui fa Assad».
Assad, quindi, sarebbe anche peggiore di Hitler, perché quello, secondo Spicer, in fondo si limitava a usare il gas “solo” sugli ebrei… Un’idiozia che aveva suscitato le più che legittime ire della comunità ebraica (e del mondo intero).
Ora l’amministrazione si ripete, lo storytelling in fondo non cambia di registro, con i forni crematori. Secondo quanto riportano i media, la prigione di Saydnaya avrebbe prodotto cadaveri a getto continuo: addirittura «50 detenuti al giorno sono impiccati», riporta, citando il Dipartimento di Stato americano, l’Huffington Post.
Il bello è che la notizia viene data senza un minimo di dubbio, un attimo di incertezza, una formula dubitativa. Sarebbe bastato armarsi di una calcolatrice per comprendere l’enormità dell’accusa: 18.250 impiccati l’anno. In cinque anni, tanti pare siano gli anni di attività del mattatoio di Saydnaya, sono 91.250 cadaveri cremati…
Centomila morti ammazzati e cremati e nessuno si è accorto di nulla. E dire che la Siria è il Paese più monitorato del mondo: droni e spie americane e di altri Paesi, vicini e lontani, hanno occhi e orecchie dappertutto.
Per non parlare del fantomatico Osservatorio siriano dei diritti umani, che contabilizza con precisione giorno dopo giorno i morti ammazzati di questo conflitto; un rendiconto che si basa su fonti di prima mano, ovvero gli jihadisti locali, che conoscono la Siria a menadito: tale Osservatorio, benché dichiaratamente anti-Assad, non ha mai denunciato un simile orrore.
A supporto delle accuse, i media riportano una sedicente indagine di Amnesty international, che puntava il dito proprio sulla prigione incriminata. Ma, al di là del balletto delle cifre dei morti – che sono diverse seppur sempre tremende – resta la domanda: perché quel rapporto, tanto dettagliato da indicare una cifra precisa di morti ammazzati, non dice nulla sull’esistenza di questi asseriti forni crematori? Possibile che un’indagine tanto accurata (sempre che sia fondata), non abbia notato una tale enormità?
Non solo: le accuse sono corredate da accurate foto satellitari come, al tempo, altre foto satellitari dimostravano senza ombra di dubbio l’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Infine occorre registrare la contraddittorietà delle accuse che nel tempo sono state mosse ad Assad. Per anni ha fatto il giro del mondo la documentazione fotografica di tal Caesar, nome fittizio che nasconderebbe un sedicente funzionario siriano addetto alla documentazione fotografica delle vittime del regime, fuggito per denunciare l’orrore.
A parte la veridicità o meno dell’origine di quella documentazione fotografica, a ragione contestata, e la bizzarria di un regime che intenda registrare per i posteri le proprie atrocità (mai successo, né ai tempi del nazismo, né sotto Pinochet), c’è una contraddizione di fondo in queste accuse incrociate: perché il regime documenterebbe gli orrori procurati ma, allo stesso tempo, farebbe sparire le tracce attraverso dei forni crematori?
Né si può tacere come non si dia, all’inverso, notizia circa le carceri jihadiste, quelle amministrate dai miliziani armati dall’Occidente (tramite l’Arabia saudita, la Giordania, la Turchia etc). Difficile immaginarle dotate di ogni confort, ammesso che poi i jihadisti cari all’Occidente usino far prigionieri. Il web, infatti, trabocca di esecuzioni sommarie ad opera di tali tagliagole.
Ma al di là del doveroso commento sull’ennesima fake news contro Assad, va segnalato che, come da commento iniziale di de Mistura, tale accusa è deflagrata come una bomba proprio nel giorno in cui sono ripresi i negoziati di Ginevra, dove i convenuti sono chiamati a dare una qualche attuazione alla prospettiva di quel processo di de-escalation accennato in precedenza.
Infine, val la pena rilevare che la vittoria di Emmanuel Macron su Marine Le Pen nelle elezioni francesi rilancia la prospettiva di un regime change in Siria, perseguita in precedenza con altalenante accanimento dal suo predecessore all’Eliseo.
Un piccolo indizio in tal senso sembra essere l’articolo firmato da Donatella Di Cesare sul Corriere della Sera del 16 maggio, a commento della notizia dei forni crematori siriani. Secondo la filosofa prestata alla cronaca nera, l’Europa, che ha conosciuto gli infausti forni crematori di Auschwitz, avrebbe il «dovere di mobilitarsi».
Solo un indizio, nulla più, dal momento che la sua è una voce tra le tante, benché di certa autorevolezza. Né aiuta ad alimentare la speranza la tempesta scoppiata in America contro Donald Trump proprio a causa dell’incontro con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov di alcuni giorni fa.
Avevano parlato di Siria, allora, con soddisfazione reciproca. Accusato di aver rivelato informazioni riservate ai russi, Trump ne ha rivendicato il diritto nel quadro di un accordo virtuoso (ovvero per portare la pace dove oggi c’è guerra).
Ma gli avversari del presidente stanno cercando in tutti i modi di portarlo alla sbarra. Sognano un watergate e quell’incontro potrebbe essere la leva giusta per farlo cadere. Quadro cambiato, il buio pare incombere. Vedremo.