Rex Tillerson licenziato: cambia il mondo
Tempo di lettura: 3 minutiRex Tillerson è stato cacciato dal Dipartimento di Stato da Donald Trump. Vincono i neocon. E vince Netanyahu, che fa suo il braccio di ferro impegnato con il Segretario di Stato americano.
Tillerson era stato scelto a sorpresa da Trump, in urto con i neocon che reclamavano quella poltrona per il loro superfalco, l’ex ambasciatore Usa all’Onu John Bolton.
Le pressioni dei neocon
L’ex Ceo della Exxon era stato scelto dal presidente per portare avanti il programma di politica estera delineato durante la campagna elettorale. Che aveva come punti fondanti un rapporto meno conflittuale con Mosca e un disimpegno degli Usa dal Medio oriente (oltre che il contrasto alla Cina).
Proprio per questo il Segretario di Stato è entrato subito nel mirino dei neocon, che invece spingevano per una politica più aggressiva nei confronti di Mosca e in Medio Oriente.
Lineamenti di politica estera della quale Hillary Clinton si era fatta paladina durante la corsa alla Casa Bianca.
Da questo punto di vista, ieri ha vinto anche la Clinton, che vede un ritorno, sotto altre forme, alla sua linea politica (bizzarrie della politica alta, che supera apparenti differenziazioni).
Inseguito da tempo da indebite pressioni mediatiche, che lo davano dimissionario o dimissionato, il destino di Tillerson si è dunque compiuto.
Probabile che gli abbia portato sfortuna anche il suo ultimo tour africano, nel quale ha soggiornato nello stesso albergo del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.
Nessun incontro ufficiale, ma certo la coincidenza geografica deve aver irritato non poco i fautori della linea dura contro Mosca (Piccolenote).
Al di là del particolare, è più che probabile che un peso determinante sul destino del Segretario di Stato abbia avuto la lunga visita di Netanyahu negli Stati Uniti.
Nei suoi cinque giorni di soggiorno statunitense il premier israeliano ha avuto colloqui a vari livelli. Oggetto di tanto attivismo, come dichiarato alla vigilia della partenza, era convincere l’America a contrastare l’Iran.
Tillerson perseguiva una politica ambigua al riguardo: la sua assertività verbale nascondeva una pratica meno aggressiva.
Sua l’idea di accusare l’Iran di aver violato lo spirito del trattato sul nucleare stipulato con l’Occidente, intesa che rappresenta una tessera fondamentale per una possibile ricomposizione del complicato puzzle mediorientale.
Un’accusa del tutto aleatoria quella di Tillerson, che implicitamente conteneva anche il tacito riconoscimento della conformità pratica dell’Iran all’intesa.
Una critica ambigua che dunque apriva margini di manovra per una revisione del trattato, scongiurandone la disastrosa revoca. Linea che Donald Trump aveva poi sposato con una personale, e più drammatizzante, interpretazione.
A rendere più esplicita e palese tale posizione era stato il ministro della Difesa James Mattis (uso a far sponda con Tillerson), il quale aveva dichiarato la sua propensione alla conservazione del trattato (Piccolenote).
Ma ciò appartiene al passato. E anche Mattis da ieri è più solo. Soltanto una decina di giorni fa si era opposto a un possibile intervento in Siria nel corso di un summit riservato (Washington Post).
Da ieri gli sarà più difficile respingere pressioni similari, che certo non mancheranno dal momento che la presenza iraniana in Siria è materia più che sensibile per i neocon.
Rex Tillerson e il trattato sul nucleare iraniano
Dal canto suo Netanyahu è potuto tornare in patria brandendo il suo personale trionfo.
La sua posizione vacillante, a causa delle inchieste giudiziarie che lo inseguono, è puntellata: da ieri può sfidare i suoi nemici interni con maggior convinzione, essendo riuscito a portare l’America sulla sua linea.
E ciò perché il nuovo Capo del Dipartimento di Stato, l’ex direttore della Cia MIke Pompeo, non ha mai lesinato critiche pesanti al trattato sul nucleare iraniano e, in genere, sull’attivismo di Teheran in Medio oriente.
Peraltro la brutalità con la quale è stato cacciato Tillerson, più che all’irruento carattere di Trump (come da vulgata comune), è da ascrivere al significato simbolico che si è voluto dare alla scelta: una svolta netta, appunto, verso una politica più muscolare.
Anche il fatto che la Cia sia stata consegnata a Gina Haspel, che ha nel suo curriculum la direzione di un centro torture in Thailandia, sembra andare in questa direzione (anche il New York Times registra con «disagio» la nomina di una fautrice della tortura).
Certo, imbarcare l’America in una nuova guerra in Medio oriente è a oggi esercizio difficoltoso, stante che lo sviluppo del conflitto siro-iracheno offre a Teheran la possibilità di infliggere seri danni ai suoi avversari.
Nondimeno il confronto con l’Iran sembra destinato a farsi più serrato e a rischio. Come anche quello con la Russia, almeno nel ristretto riquadro mediorientale. Il cielo si è fatto più cupo: minaccia tempesta.