L'Onu e l'inutile sentenza sul Mare cinese
Tempo di lettura: 3 minuti«La Cina non ha diritti storici di sovranità sul Mar Cinese meridionale». Questo il verdetto della Corte permanente di arbitrato sulla legge del mare, che cala come una scure sulla politica cinese tesa da anni a rivendicare la sovranità su quel mare.
Da anni, infatti, Pechino rivendica, anche attraverso l’ostentazione della sua forza militare, isole, isolotti e semplici scogli che vi affiorano, innescando controversie con gli altri Paesi che vi si affacciano.
Paesi che hanno trovato appoggio negli Stati Uniti, per i quali il contenimento delle aspirazioni del Dragone sul Mar cinese meridionale è diventato uno degli assi portanti di una politica estera volta al contenimento di Pechino. La cui ascesa come superpotenza è percepita da Washington come minaccia esistenziale.
Già, perché se il XXI secolo sarà o meno “americano”, come richiamato dal titolo del manifesto che i neocon stilarono nei giorni bui che precedettero l’attentato alle Torri Gemelle, molto dipenderà dalla competizione con la Cina. Che a sua volta considera il controllo del Mar cinese meridionale come essenziale alle sue aspirazioni globali.
Per una ragione semplice: in questo tratto di mare transitano 5 mila miliardi di dollari di merci all’anno. E sotto di esso si trova un altro mare, di petrolio e di gas naturale.
Non solo: il controllo di quelle acque assicura al Dragone una fascia di sicurezza indispensabile sul piano della difesa nazionale.
È lo stesso principio per il quale la Russia considera una minaccia alla propria sicurezza l’adesione dell’Ucraina alla Nato: nessuna potenza può permettersi una militarizzazione potenzialmente ostile nel proprio giardino di casa (vedi il caso dei missili nucleari sovietici a Cuba).
Su tale controversia è giunta la sentenza del Tribunale dell’Onu, sollecitata da un vecchio ricorso delle Filippine. Una sentenza che ovviamente Pechino considera non vincolante.
La Cina, infatti, insiste nel ritenere legittime le sue aspirazioni: diritti acquisiti fin da quando Chiang Kai-shek (non certo un fan del regime comunista), aveva rivendicato quel mare incontrando la compiacenza internazionale.
Non solo, Pechino ha ricordato anche gli accordi stipulati negli anni, tra cui quello con le stesse Filippine, che affidavano alla trattativa tra le parti la risoluzione della controversia marina.
Insomma, la sentenza del Tribunale delle Nazioni Unite non chiude affatto la questione, nondimeno avrà un peso non indifferente sul futuro.
Da oggi l’attivismo cinese nel Mar cinese meridionale, che certo non potrà fermarsi pena il crollo di Pechino, potrà essere considerato da altri Paesi come violazione territoriale. Il che potrebbe accendere micce esplosive in un angolo di mondo fin troppo militarizzato.
Non solo, potrà innescare sanzioni contro Pechino, come già avviene contro la Russia per analoghe violazioni, vere o asserite, legate alla vicenda ucraina. Anche se il fatto che l’economia globale sia appesa alle sorti cinesi rende l’opzione densa di interrogativi e variabili.
Ma questo è il (possibile) futuro. Ciò che è certo è che la sentenza spinge il Dragone ad accentuare la sua motivata sfiducia sulla possibilità di uscire dall’angolo nel quale lo si vuole restringere solo in forza della sua economia.
Lo costringe, quindi, ad accentuare le spinte nazionaliste già presenti e il suo carattere di potenza militare, con tutto ciò che comporta sia a livello economico che nei modi di approcciarsi alle prossime, inevitabili, crisi che si accenderanno nel mare conteso.
La sentenza ha anche riflessi sulle Filippine, Paese protagonista del ricorso: il neopresidente Rodrigo Duterte è stato propugnatore di un approccio più soft (rispetto al passato) tra Manila e Pechino.
Un buon viatico per iniziare l’auspicata smilitarizzazione del Mar cinese meridionale e disinnescare un possibile conflitto globale.
La sentenza, invece, lo mette alle strette: se non la fa propria rischia di apparire contrario agli interessi nazionali. Se tenterà di farla valere dovrà cambiare il suo approccio verso la Cina. E, stante la sproporzione di forze, mettere il suo Paese sotto la tutela degli Usa. Cosa che ha dichiarato di voler evitare. Vedremo come (e se) se la caverà.
Insomma, il Tribunale dell’Onu ha gettato benzina sul fuoco. D’altronde è da pazzi il solo immaginare che cinque ignoti giudici possano portare ordine nel caos di una contesa tanto cruciale e pericolosa per il mondo intero.
Sarebbe servito un approccio diverso, una sede istituzionale più alta e rappresentativa delle parti. In grado di ricercare i necessari compromessi. Non è una bella pagina per le Nazioni Unite, nate per attutire la conflittualità internazionale.