13 Gennaio 2018

Trump non sanziona l'Iran

Trump non sanziona l'Iran
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L’incendio alla Trump Tower

L’esacrabile dichiarazione di Trump sugli «Stati cessi» ha infiammato di legittima indignazione il mondo. Eppure, mentre l’attenzione mediatica si concentra sull’ennesima idiozia verbale del presidente degli Stati Uniti, dedica ben poca attenzione a una mossa di Trump ben più importante per i destini del mondo, ovvero la rinuncia a nuove sanzioni contro l’Iran.

Scadeva ieri, infatti, la sospensione delle sanzioni contro Teheran conseguente all’accordo sul nucleare iraniano. Trump avrebbe potuto annullare tale sospensione ed emanare nuove sanzioni, cosa che avrebbe nuovamente infiammato il Medio oriente (e non solo). Non lo ha fatto. Il mondo può tirare un sospiro di sollievo.

Un passo distensivo, quello di Trump, accompagnato dalle solite intemperanze verbali contro l’Iran e da sanzioni mirate contro alcuni dei suoi esponenti militari e politici.

Un cliché che ripete quanto accaduto nell’ottobre scorso, quando il presidente degli Stati Uniti è stato chiamato a decidere sulla conservazione dell’accordo nucleare con Teheran: ai tuoni verbali contro lo Stato persiano non sono seguiti i fulmini di una sua revoca, ma alcune sanzioni senza alcuna incidenza reale (vedi Piccolenote).

Oggi come allora la decisione del presidente è stata più che difficile, stante la spinta dei neocon per forzarlo a una rottura con l’Iran, una vera e propria ossessione per tale ambito politico-finanziario-militare.

Una spinta che, oggi come allora, sembrava dover ottenere l’agognato risultato, tanto che i media internazionali, al solito, avevano lasciato trapelare indiscrezioni che davano l’esito negativo come cosa fatta.

Non è andata così. Come altre volte, Trump ha fatto finta di piegarsi ai dettati neocon per poi fare un passo indietro, grazie anche al sostegno e ai consigli di parte della sua amministrazione, in particolare i generali di scuola kissingeriana (ovvero realista) di cui si è circondato.

Questa non corrispondenza di Trump ai dogmi neocon, uno dei quali è appunto la necessità di una guerra contro l’Iran, spiega l’odio irrevocabile di cui è fatto segno il presidente da parte degli esponenti più autorevoli di tale ambito.

Ne è un piccolo indizio il libro sul Russiagate uscito nei giorni scorsi ad opera di Michael Wolff, che non è un neocon ma ne partecipa l’humus culturale (che scorre sottotraccia da sinistra e destra, abbracciando democratici liberal e repubblicani).

Il testo di Wolff è teso a rilanciare lo scandalo degli indebiti rapporti tra lo staff presidenziale e i russi che, nelle speranze dei neocon, dovrebbe riuscire a travolgere il tycoon prestato alla politica.

Ma il libro risulta una raccolta di gossip, nulla più. Tanto che l’unica vera rivelazione è rappresentata dalle accuse di Steve Bannon, il fedelissimo stratega di Trump, al rampollo presidenziale, Jared Kushner, lo sposo della bella Ivanka che ha un ruolo non secondario nell’amministrazione americana.

La ritrattazione pubblica di Bannon, avvenuta all’uscita del volume, ha avuto l’esito di svuotarne la carica dirompente, ridimensionandolo così al rango dell’ennesimo libello scandalistico sugli «errori e i peccati» presidenziali. Uno dei tanti, come accennava Sergio Romano sul Corriere della Sera.

Così a colpire non è tanto il contenuto quanto il titolo del volume: Fuoco e Furia, uno slogan alquanto sopra le righe per un volumetto scandalistico, che suona come una sorta di dichiarazione di guerra.

L’incendio alla Trump Tower avvenuto per caso negli stessi giorni della sua pubblicazione assume un carattere alquanto simbolico in tal senso.

Ma al di là delle lotte intestine che scuotono nel profondo il Potere americano e che scorrono al di sopra e al di sotto della palese contesa pubblica (che vede i democratici compatti nell’avversione al presidente folle e razzista e la destra deliziata dalle sue intemperanze), va evidenziato un particolare di non poca importanza.

La decisione di Trump sulle sanzioni all’Iran è stata favorita non poco dalla risoluzione delle proteste di piazza iraniane che abbiamo trattato in altra nota (cliccare qui).

Se le proteste fossero proseguite e/o avessero scatenato una repressione cruenta, Trump avrebbe dovuto giocoforza emanare nuove sanzioni contro Teheran. Particolare non secondario per approcciare la genesi e la tempistica dell’effimera primavera persiana.

Detto questo, nel prendere una decisione tanto decisiva, Trump ha invitato, con i soliti toni irritanti, i Paesi sottoscrittori dell’accordo, in particolare l’Europa, a trovare nuove soluzioni.

Ora la palla passa quindi al Vecchio Continente (e a Russia e Cina). Si tratta di rinegoziare un trattato che, così com’è, Trump non potrà conservare in eterno. Troppe le spinte avverse.

L’Europa dovrebbe quindi convincere l’Iran a rivederlo e dare al presidente americano una soluzione che gli permetta di dire al mondo di aver cambiato il nefasto accordo stipulato da Barack Obama (come da definizione di Trump).

Bruxelles ha tante frecce al suo arco per convincere Teheran. Ma deve partire dal presupposto che l’esito deve essere win to win, ovvero che tutti gli attori del negoziato siano soddisfatti.

L’Iran, infatti, ha il timore (peraltro più che fondato) che la richiesta di una revisione più volte avanzata in ambito internazionale sia una trappola, cioè che gli si chieda di smantellare o depotenziare il suo apparato militare per consentire ai suoi avversari di attaccarlo.

Occorre quindi offrire garanzie reali in tal senso. Se l’Europa riuscirà e darà a Trump la sponda per sottoscrivere un nuovo trattato con l’Iran, il mondo sarebbe sollevato dalla tagliola che rende così pericoloso quello attuale.

Esso infatti deve essere rinnovato a scadenze alquanto brevi per i tempi della politica e della geopolitica. Tale tagliola offre il destro agli ambiti che spingono per scatenare una guerra tra Iran e Occidente di creare perturbazioni geopolitiche tali che, a ogni scadenza, mettono a rischio la conservazione del trattato e quindi la pace mondiale.

È accaduto con le proteste iraniane. Si ripeterà se non si trova una qualche soluzione prima.

 

 

 

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