Trump verso la pace con la Corea del Nord
Tempo di lettura: 3 minutiIl vertice tra Trump e Kim Jong-un previsto per il 12 giugno si farà, a meno di eventi altamente drammatici. E nonostante le attività di disturbo per farlo saltare.
Da una parte le nefaste dichiarazioni del Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, il quale, avendo paragonato le trattative sul disarmo nucleare coreano a quelle realizzate a suo tempo con la Libia, aveva provato a instillare nella dirigenza di Pyongyang un terribile dubbio: che il disarmo avrebbe solo reso più facile ai suoi nemici la loro eliminazione, come avvenuto per Gheddafi.
Dall’altra, le resistenze interne dell’élite militare nordcoreana legate allo sviluppo atomico, che vede nel disarmo un’erosione del proprio potere.
Una resistenza alla quale Kim ha fatto fronte con un ricambio dei vertici delle Forze armate: sostituiti sia il Capo di stato maggiore che il ministro delle Forze armate popolari della Corea del Nord (vedi Lorenzo Vita su Occhi della guerra).
Superati gli ostacoli, funzionari di Washington, Seul e Pyongyang stanno limando i contenuti del vertice, che pare destinato a essere più simbolico che denso di contenuti reali. Ma il simbolo, in questo caso, è più importante dei contenuti.
Trump farà la pace con Kim. E la Corea del Nord dal 13 giugno uscirà dal novero dei cosiddetti “stati canaglia“, target dichiarato dei neocon da quando hanno preso il potere in America (dopo l’attentato alle Torri gemelle).
Questo conta, il resto è secondario. Di questo storico vertice scrive Mark Landler sul New York Times, in un articolo più che interessante. Trump ha cambiato la linea tenuta in precedenza, scrive Landler, che vedeva il successo del negoziato come esito di una “pressione massima” sull’interlocutore.
Una linea lodata da tanti media, i quali asserivano discendesse dal suo modo di condurre le trattative. In realtà si trattava di una concessione ai neocon e non era affatto proficua, tanto che ha rischiato di far saltare tutto.
Anche sulle richieste da fare a Kim, come scrive Landler, Trump ha fatto retromarcia: se in precedenza si era attestato su un massimalismo inaccettabile (ovvero una denuclearizzazione completa, irreversibile e riscontrabile), ora chiede un impegno meno stringente. L’obiettivo del disarmo atomico sarà da conseguire nel tempo.
L’altra reale conseguenza di questo incontro potrebbe essere la firma di un trattato di pace tra la Corea del Nord e quella del Sud. Passo storico, stante che la guerra inter-coreana si era conclusa nel ’53 con un armistizio che è durato finora. Memoria di un passato sempre incombente.
Interessante l’accenno di Landler al rapporto conflittuale tra il Consigliere alla Sicurezza nazionale John Bolton e il Segretario di Stato Mike Pompeo.
Una conflittualità emersa in modo palese proprio sul dossier coreano, quando Pompeo, che sulla riuscita del vertice sta puntando molto, ha ammesso pubblicamente che lui e Bolton hanno “opinioni diverse”.
Ma più interessanti ancora le parole usate ieri da Trump nei confronti dell’Iran. Parlando del vertice con Kim, Trump ha dichiarato che anche il problema del nucleare iraniano potrebbe essere riaperto.
Lo scorso maggio il presidente americano aveva stracciato il trattato con Teheran. Ma ieri ha affermato che l’Iran “non è più il Paese di qualche mese fa”.
Teheran avrebbe infatti attutito la sua assertività sia in Siria, dove sostiene Damasco con grande irritazione di Israele, che in Yemen, dove è accusata di sostenere i ribelli houti contro il governo filo-saudita.
Non solo: l’Iran avrebbe anche rinunciato all’obbiettivo di ampliare la sua influenza fino al Mediterraneo.
Le parole di Trump alludono a una possibile apertura di un nuovo negoziato sul nucleare iraniano, che sarebbe facilitato da un accordo con Pyongyang.
Si potrebbe cioè applicare il modello Pyongyang anche a Teheran. Ma l’Iran non è la Corea del Nord, e gli ostacoli per questo eventuale passo sono tanti e ardui. Come si legge anche nell’articolo di Landler (sul punto rimandiamo anche al precedente articolo di Piccolenote).