Alberto Giacometti, Nature morte à la pomme
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Ho sempre avuto un debole per Giacometti. Un po’ perché viene da un paese e da montagne stupende come quelle di Stampa e della Val Bregaglia (appena passato il confine italiano di Chiavenna). Un po’ perché l’ho sempre stimato per il suo modo di rapportarsi con le persone, a cominciare da sua madre e da sua moglie Annette (amata in un modo con cui pochi artisti hanno saputo amare la donna della loro vita, per quanto questo non abbia esentato da tradimenti…). Un po’ perché ha il pregio raro di essere solidale con le attese acute degli uomini del suo tempo. Giacometti per me è un po’ un genio fratello.
Per questo se c’è un quadro tra tutti i milioni di quadri che mi sono passati davanti agli occhi, che vorrei avere in casa mia è proprio questa sua tela del 1937 “Nature morte à la pomme”. È una tela grande, monumentale e scarna nello stesso tempo. La grande madia che occupa la maggior parte dello spazio è memoria degli arredi delle case montanare di Stampa: una memoria che Giacometti si porta dietro, anche quando emigra a Parigi e diventa poco alla volta, il più desiderato e ricercato tra tutti gli artisti: nel suo studio di Montparnasse, dove restò per tutta la vita, senza riscaldamento e senza chiavi alla porta, arrivavano tutti, collezionisti, galleristi, scrittori, e ovviamente altri artisti (non credo che sia esistito un caso analogo di artista tanto refrattario al successo).
Sopra la madia c’è una sola mela, che non sta neanche al centro: piccola e in apparenza un po’ sperduta in quello spazio tanto più grande. Eppure è lei che dà il titolo al quadro, è a lei che l’occhio indagatore di Giacometti punta. C’è molto amore in questo sguardo che cerca l’oggetto rispettandolo nella sua piccolezza; c’è molto amore in queste pennellate laboriose, pazienti, che avanzano senza imporre certezze, senza la presunzione di “riuscire” a trovare ciò che sta cercando. Eppure Giacometti cerca sempre, scava, esplora; i suoi segni sono come tracce che inseguono degli indizi, come domande sussurrate che si susseguono. C’è un infinito rispetto della realtà nella sua pittura, un pudore che gli trattiene la mano e asciuga ogni retorica: per quello la mela resta così piccola, senza esserne affatto diminuita. Ma per quello quella mela sembra immagine vera della vita. Un cosa esile, piena di finitezza. Da ammirare con gratitudine e da amare senza pretese.
Aggiungo queste parole di Giacometti (non relative al nostro quadro, ma a quel quadro assolutamente riferibili)
«Io so che mi è assolutamente impossibile poter modellare, dipingere o disegnare una testa, ad esempio, così come la vedo, e tuttavia questa è la sola cosa che cerco di fare. Tutto ciò che saprò fare sarà sempre soltanto l’immagine sbiadita di quello che vedo e la mia riuscita sarà sempre inferiore allo scacco, o sarà, forse, sempre pari ad esso. Io non so se lavoro per realizzare qualcosa oppure per scoprire il motivo per cui non riesco a fare quello che vorrei».