Edouard Manet, Le chemin de fer
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In queste settimane a Londra è in corso un mostra di Edouard Manet che meriterebbe davvero di essere vista. È una mostra dedicata ai ritratti del grande pittore francese, e tra le opere c’è anche questo capolavoro proveniente da Washington e intitolato Le chemin de fer (1872). Rappresenta la modella preferita di Manet, la rossa Victorine Meurent, colei che posò per i due celebri quadri scandalo, Le Dejeuner sur l’herbe e l’Olympia. La bellezza della pittura di Manet e in particolare di quest’opera, è tutta da guardare e chiede davvero meno parole possibile. È quello che si potrebbe definire un godimento dello sguardo. Ovunque l’occhio si posi trova qualcosa da cui non si staccherebbe più: quindi il mio consiglio è di prendere una bella riproduzione (ad esempio avvalendosi della qualità spettacolare di google art project http://www.googleartproject.com/it/collection/national-gallery-of-art-washington-dc/artwork/the-railway-edouard-manet/715700/) e fermarsi davvero a guardare.
Detto questo ci sono elementi di questo quadro che meritano di essere guardati anche con un occhio più “mentale”. Perché Manet sembra un artista che “dipinge e basta” ma in realtà ha una sofisticata retrostruttura che non sopraffà mai il dipinto ma che gli permette di essere così come lo vediamo. È un dispositivo che non si vede ma che è assolutamente decisivo. Su questo aveva scritto un piccolo, straordinario libro Michel Foucault, uno che con l’arte non c’entra essendo stato un grande filosofo, ma che nel caso di Manet ha avuto intuzioni geniali. Ad esempio ha notato come l’artista francese sperimenti un obiettivo assolutamente nuovo per la pittura, che non è più rappresentazione di un aspetto della realtà ma è un tentativo di “esistenza in sé”, come per un cambio di status ontologico.
Da questo punto di vista la strategia dello sguardo in Manet è sempre decisiva: abbiamo sempre personaggi che stanno guardando qualcosa che è fuori dalla tela e che noi non vediamo. Il loro non è un mettersi in mostra ma un mettersi in relazione con qualcosa che c’è e sta dove noi siamo: tanto che vien voglia di voltarci, per controllare cosa stia accadendo. In questo caso, seduta sotto la cancellata della stazione parigina di Saint-Lazare (appena inaugurata in quegli anni) Victorine ha sollevato lo sguardo dal libro perché richiamata da qualcosa che ha attirato la sua attenzione. A sinistra c’è una bambina che invece guarda in direzione opposta, ma anche quel che lei vede è nascosto al nostro sguardo. La conseguenza è un desiderio di girare intorno al quadro, per guardare quel che non ci è dato vedere. Tanto più che con un escamotage sottile Manet ci illude che i limiti laterali della tela siano in continuità con le sbarre della cancellata (tutti elementi in verticale). Insomma è un’opera aperta, che interpella sempre chi guarda a una relazione inattesa. Come ha detto Meyer Shapiro, i suoi personaggi non sono mai delle terze persone ma delle seconde: sono un “tu” che cerca la nostra presenza. E ovviamente la trova, tanta è la loro bellezza…