Giotto, Presepe di Greccio
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Alla vigilia del Natale 1223, san Francesco, di passaggio a Greccio, paesino tra Lazio e Umbria, chiese a un amico del luogo, Giovanni da Greccio, di poter vedere esaudito un desiderio: quello di celebrare la festa realizzando un piccolo presepe vivente. Francesco era reduce dal viaggio in Terrasanta del 1220, dove aveva toccato, secondo alcuni biografi, anche Betlemme; probabilmente con il presepe voleva rendere viva la memoria di quel viaggio. Per Francesco il cristianesimo era un fatto così reale da poter essere visto e anche toccato: e il presepe era un modo semplice per ribadire questa evidenza così chiara nella sua esperienza. Un “fatto” poteva naturalmente anche essere rappresentato per figure. E questo spiega come il francescanesimo abbia dato il “la” allo straordinario sviluppo della tradizione pittorica, che in Italia conobbe a partire dal Duecento un moltiplicarsi di grandi maestri chiamati a narrare per immagini, sui muri o su tavole, protagonisti e fatti da cui si è originato il cristianesimo. In fondo, la storia dell’arte potrebbe proprio essere letta come storia di un’immaginazione (quella degli artisti) in continua azione, che prolunga dentro ciascun tempo la memoria visibile del fatto cristiano.
In prima fila, anche in senso cronologico, tra questi grandi artisti ci fu naturalmente Giotto, che sul finire del Duecento, chiamato a lavorare al cantiere della Basilica superiore di Assisi, dovendo narrare per figure la vita di Francesco, inserì tra i 28 episodi anche quello del Presepe di Greccio. La scena è costruita con una certa arditezza, perché ambientata nel presbiterio di una chiesa di quel tempo e il punto di vista che Giotto sceglie è quello del fondo dell’abside. Per questo si vede solo il retro del grande crocifisso appeso e rivolto verso i fedeli, mentre la vista della navata è chiusa dal tramezzo che tradizionalmente divideva il presbiterio nell’edilizia francescana. Dalla porta aperta, al centro del tramezzo, si affaccia un gruppo di donne che assistevano infatti alla messa da una posizione separata, mentre alle spalle dell’altare si vede un gruppo di frati che stanno intonando un canto, che dagli atteggiamenti ci è facile individuare come un canto di lode. A sinistra, invece, un gruppo di astanti hanno uno sguardo che sembra risucchiato da quel che sta accadendo al centro: in prima fila c’è anche l’amico a cui Francesco aveva affidato il compito di realizzare quel Presepe. Al centro ovviamente c’è Francesco, in abiti da diacono in quanto non era sacerdote, che con un atteggiamento commosso sta per prendere tra le braccia il bambinetto. E qui, più di qualsiasi parola vale quello che scrisse Tommaso da Celano, uno dei primi biografi del santo: «Francesco… con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betrlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole».
Buon Natale