Jan Vermeer, La Stradina
Tempo di lettura: 2 minutiÈ una piccola tela che accoglie i visitatori alla mostra delle Scuderie del Quirinale. Poco più di 50 cm per 40. Rappresenta una Stradina di Delft intorno al 1658, ed insieme alla celebre Veduta della stessa città, che Proust definì il più bel quadro del mondo, è l’unico paesaggio di Vermeer che conosciamo. Per quanto sia piccolo, se dovessimo descriverne analiticamente tutti i particolari questo quadro potrebbe richiedere intere pagine (mi limito a suggerire di guardare bene il tessuto dei mattoni, punteggiato dal bianco luminoso della calce; oppure il glicine solitario che si arrampica sulla sinistra). Ogni millimetro della superficie infatti è stato ben calcolato, studiato e realizzato con una cura senza pari. Messo in questi termini però può sembrare l’esito di un grande perizia tecnica, di una perizia un po’ maniacale: succede infatti così per la gran parte dei quadri del secolo d’oro olandese in mostra a Roma. Sono rappresentazioni di un piccolo mondo asfittico e un po’ stagnante. In Vermeer succede qualcosa di diverso: l’insieme non è dato dalla somma di tutti i particolari.
C’è un fattore che s’aggiunge, difficilmente decifrabile: è come un acuto non sonoro ma visivo; un soffio delicatissimo d’aria che non scompiglia nulla, ma scuote nel profondo le fibre della realtà. Se lo si guarda da vicino, il quadro di Vermeer sembra segnato da un formicolio, da un agitarsi di tutti i piccoli mattoncini di cui è fatto. È la dimensione del tempo che sembra attraversarla e ne fa un’immagine in apparenza perfetta ma che in realtà non basta a se stessa; in apparenza quieta, ma in realtà in bilico, proprio perché ha inglobato questa dimensione di transitorietà. Prendendo a prestito il celebre verso di Rebora, si può definirla “un’immagine tesa”. Quasi non ce ne si accorge, perché è una tensione svuotata di ogni enfasi. Ma proprio questa è la grandezza di Vermeer.