5 Agosto 2014

Paolo Veronese, Cristo e il centurione

Paolo Veronese, Cristo e il centurione
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Visitando la stupenda mostra di Paolo Veronese al Palazzo della Gran Guardia di Verona (appena si varca la soglia sembra di entrare in un paradiso visivo; è la mostra più antidepressiva che abbia visto in tanti anni…), ci si imbatte in un quadro bellissimo arrivato dal Prado. Rappresenta il miracolo di Gesù, raccontato sia da Giovanni che da Luca e Matteo, della guarigione del servo del Centurione.

È un miracolo che come scrive Tommaso (il riferimento l’ho trovato nell’eccellente scheda di catalogo firmata da Claudia Terribile) avviene «absens corpore, preasens maiestate». Il corpo del servo infatti non è sulla scena, in quanto il suo “capo”, il Centurione, si era mosso per andare incontro a Cristo, a Cafarnao, e chiedergli la grazia. Dell’episodio mi ha sempre colpito quest’asimettria: un capo militare che si dispone ad un gesto così umile e così poco consono al proprio grado per un proprio sottoposto. Una dinamica che sarebbe inimmaginabile se non ci fosse di mezzo la presenza del Signore…

Veronese illustra la scena con il suo stile, in orizzontale, immagina che Il Centurione si prostra davanti a Cristo deponendo la spada e affidando l’elmo ad un ragazzino presente sulla scena. Alle sue spalle due aiutanti lo tengono per le braccia, quasi tentare di farlo desistere da quel gesto eccessivamente servile. Ma non c’è nulla da fare, perché l’impeto con cui il Centurione si rivolge a Gesù, allargando le braccia come per implorazione, non è quello del questuante, ma della persona attratta dal di più di umanità colta in Gesù stesso. Basta del resto osservare il bellissimo volto del Centurione, così tutto “preso” dalla presenza di Cristo, per rendersene conto. È proprio quel “di più”, l’unica spiegazione logica che rende ragione di un umiliarsi che nelle dinamiche umane sarebbe presa come segno di follia. Invece qui tutto acquisisce una sua naturalezza e una sua ragionevolezza. E Veronese, pittore molto terrestre, si trova a proprio agio a rappresentare non il miracolo (quello era semmai pane per il suo coetaneo Tintoretto), ma la domanda di miracolo. Una domanda che non ha bisogno di effetti speciali, che non chiede precondizioni morali, ma che forse è a sua volta un “miracolo”.

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