Paul Cézanne, Mont Saint-Victoire
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Negli ultimi periodi della sua vita Paul Cézanne aveva preso uno studio fuori da Aix en Provence, la sua città natale, in località Les Lauves. Non c’era niente di particolare in quel luogo se non il fatto che era immerso nella natura provenzale e che soprattutto aveva spalancata davanti la vista della Sainte-Victoire, una montagna che si staglia all’orizzonte con il suo ammasso di rocce e che vista dal mare era anche punto di riferimento per i naviganti.
Alla Sainte-Victoire il vecchio Cézanne dedicò circa 50 opere, tra tele e acquerelli, dal 1896 fino al 1906, anno della sua morte. Perché un artista con la storia e l’esperienza di Cézanne si era ostinato tanto davanti a un solo soggetto? La domanda non è affatto banale e coglie una delle questioni essenziali per la vita di un artista. Cézanne lavorava con tanta insistenza su quel brano di realtà che il destino gli aveva messo di fronte, come se fosse quello il compito che gli era stato assegnato. Lui lo chiamava “le motif”, che per un pittore è quello che nella vita normale di ogni uomo è la “circostanza”. Spiegava che il lavoro artistico consisteva nel piegarsi alla realtà, invece che di piegare la realtà a sé. Per cui con la costanza silenziosa dell’eremita ogni giorno si dispondeva a questo esercizio, sapendo che non lo avrebbe mai portato al possesso di quello che aveva davanti. Intravedeva la meta, ma sapeva di essere sempre in cammino.
«Non si è mai troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura… dobbiamo penetrare ciò che si ha davanti, e perseverare nell’esprimersi il più logicamente possibile», aveva scritto in una lettera all’amico Emile Bernard. Altrove parla dell’intensità che avverte nei colori e nelle forme che la natura gli presenta davanti agli occhi: è quell’intensità che lui insegue con pazienza, determinazione e anche umiltà. In questo modo riflessi di quell’intensità finiscono di volta in volta sulle tele o sui fogli, facendo delle Sainte-Victoire dei capolavori, per quanto frutto di un lavoro perennemente in corso. Capolavori aperti, liberi, perché sempre in fieri, mai definitivi. Cézanne avanzava cercando di oggettivare il più possibile le sensazioni ricevute, di liberarsi dall’approssimazione e di evitare la scorciatoia degli effetti speciali. In questo esercizio di “sottomissione” arrivava così davvero a sfiorare il mistero evocato da ciò che aveva davanti agli occhi. Le sue Saincte-Victoire non sono esiti, sono sempre e solo indizi.
Ma c’è un elemento che ancora manca e che invece rappresentava una leva decisiva: Cézanne si muoveva perché attratto e commosso dalle forme, dalle luci e dai colori di quella montagna. È un fattore imprevedibile e imprendibile, questo. E l’ho capito per la prima volta con precisione quando ho sentito un altro artista ragionare sulla serie delle Sainte-Victoire. È un artista importante di oggi, Alberto Garutti, che nel suo lavoro, pur molto diverso, guarda alla metodicità di Cézanne. «Un giorno nel giardino dello studio di Cézanne», ha raccontato, «ho visto la montagna da lui stesso dipinta, luminosa e bianca, luminosa per la luce cristallina che creava frammentazioni di luce ed ombra. Stando lì ho capito che il vento è stato complice di Cézanne». Il vento che giunge senza che si sappia da dove arrivi; è il complice, di cui ogni artista ha bisogno, perché da solo non andrebbe da nessuna parte.