Raffaello, Madonna Tempi
Tempo di lettura: 2 minutiCi sono artisti, anche grandi, su cui a volte pesano stereotipi che li rendono distanti al nostro sguardo. Uno di questi, è certamente Raffaello: troppo bello, troppo perfetto, al punto da apparire lontano e un po’ raggelante. Ma un conto è lo stereotipo, favorito anche da quel profluvio di immagini devozionali, e un conto è la realtà.
I quadri guardati ad “occhi aperti”, smentiscono l’immagine che ci si è fatti. Succede ad esempio con uno dei quadri tra i più intensi che siano mai stati dipinti: la Madonna Tempi (dal nome della famiglia fiorentina che commissionò l’opera a Raffaello), conservata oggi alla Alte Pinakotek di Monaco. È una tavola, di 75 cm per 51, realizzata probabilmente nel 1508, prima del trasferimento romano dell’artista. Quindi un quadro da camera, tutto sommato piccolo, che sta bene dentro quelle dimensioni, come se fosse assolutamente sufficiente per esprimere qualcosa di inaspettatamente grande.
E cos’è quest’aspetto inaspettatamente grande che ci investe appena fermiamo lo sguardo sul quadro? È l’inimmaginabile attrazione affettiva che lega la Madre e il Figlio, che il genio di Raffaello risolve, in quel minimo spazio, con una serie di soluzioni che non possono non riempire di turbamento e commozione.
Le mani innanzitutto: quella sotto, che chiude nel palmo oggettivamente troppo dilatato (attenti a parlare della perfezione di Raffaello), tutto il corpo del bambino; e l’altra che con una torsione un po’ innaturale del polso, stringe la schiena di Gesù. Anzi sembra comprimerla verso di sé, al punto che il Bambino stesso, quasi per difendersi, tiene il gomito piegato sul petto di Maria.
La mano è vagamente goffa: probabilmente in un’accademia di pittura avrebbe ricevuto una bocciatura… Il culmine di questa spirale affettiva viene però raggiunta dai due volti accostati. Raffaello non è Donatello, che risolveva analoghe compressioni con soluzioni formali ardite e rivoluzionarie. Raffaello, alla fine vuole comporre la scena dentro un ordine che era la regola in quei tempi a Firenze. Non vuole trasgredirlo.
Per questo i due volti che pur si toccano non finiscono l’uno nell’altro, non si fondono come avrebbe fatto l’ultimo Michelangelo nella meravigliosa Pietà Rondanini. I due volti si sfiorano soltanto, come se l’artista avesse imbarazzo a forzare la mano e a spingere l’uno nel volto dell’altra, ad alterare l’equilibrio delle forme. E allora cosa s’inventa Raffaello? Quella strana postura di Maria, con la bocca socchiusa come nell’accenno, trattenuto, di un bacio, e con lo sguardo che “precipita” nel Bambino, come se in quel piccolo corpo sentisse la propria consistenza.
È tale questa concentrazione affettiva, che il volto alla fine, se lo si guarda bene, ha un qualcosa di asimmetrico, quasi di “sbilenco”, di clamorosamente imperfetto. Questo accadeva a Raffaello ogni volta che s’avventurava nella pittura: inseguiva la perfezione, ma gli scappava di mano…