17 Settembre 2015

Steve Mc Queen, Ashes

Steve Mc Queen, Ashes
Tempo di lettura: 2 minuti

Nella bellissima edizione della Biennale di Venezia di quest’anno curata da un critico nigeriano, Okwui Enwezor, ci sono tante opere che meriterebbero di essere viste o quanto meno raccontate. Scelgo questa di Steve Mc Queen, perché è una di quelle opere che ti aiutano non solo a capire il tuo tempo, ma soprattutto a guardarlo con una tenerezza e una stima di cui oggi è raro trovare riscontri.

 

Steve Mc Queen è un regista che nel 2013 con “12 anni schiavo” ha addirittura vinto tre Oscar. Ma nonostante il successo nel cinema non ha mai messo da parte la sua vocazione artistica. A Venezia ha portato Ashes, un video dedicato a un giovane pescatore delle isole Grenadine (da cui veniva il padre dell’artista), di cui McQueen era diventato amico e che venne ucciso dai trafficanti dopo che aveva scoperto un nascondiglio della droga.

 

Con lui McQueen aveva girato delle riprese che avrebbero dovuto costituire materiali per il cortometraggio Carib’s Leap. L’uccisione di Ashes ha ovviamente fatto naufragare il progetto. Ma nelle mani del regista sono rimaste queste immagini stupende girate in mare aperto, con il ragazzo seduto sulla prua della barca, e quindi ripreso quasi sempre di schiena. Sono immagini di una suggestione che commuove, per l’amore che le permea, per la bellezza folgorante del blu del cielo e del mare, sul quale si staglia la schiena del ragazzo. Immagini inquiete, perché girate sotto lo sballottolio continuo del mare. Immagini piene di struggimento perché tutti sappiamo com’è poi andata a finire (un breve estratto del video si può vedere cliccando qui).

 

 

Lo schermo era appeso al centro di una grande sala. Se lo si aggirava si scopriva che sull’altro lato veniva proiettato il seguito della storia. Era la storia degli amici di Ashes che ne raccontavano la vita e testimoniavano la loro amicizia per lui, mentre gli costruivano la tomba secondo la tradizione delle Isole Grenadine. Tomba di cemento, a forma di grande cassone, con disegnate sopra delle semplici decorazioni. Quando si è trattato di incidere nel cemento la croce, la cinepresa si è avvicinata, per seguire le mani che per pulirne le scorie finivano con l’accarezzarla insistentemente.

 

Lo stesso schermo che sul fronte raccontava la vita, sul retro invece diceva della morte. E del bisogno semplice degli uomini di trovare, anche solo in un segno, l’eco di una speranza.

Opere come queste ci ricordano che l’arte non è chiamata a sistemare il mondo, ma a sorprendere la tenerezza dell’essere nelle sue infinite e imprevedibili manifestazioni. A partire da quel bisogno così umano di sapere che il destino di un amico a cui si è voluto bene non è finito in un nulla.

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