24 Marzo 2015

Dai talebani all’Isis, errori che si ripetono

di Lorenzo Biondi
Dai talebani all’Isis, errori che si ripetono
Tempo di lettura: 5 minuti

Alla metà di febbraio il premier turco Ahmet Davutoglu si è sentito ripetere per l’ennesima volta una battuta che circola ormai da anni. Il suo interlocutore, stavolta, era il senatore pakistano Mushahid Hussain, già candidato presidenziale per un partito islamico moderato: «State ripetendo gli stessi errori che noi abbiamo commesso in Afghanistan – dice Hussain al premier turco, con riferimento alla Siria. – Gruppi che oggi state sostenendo finiranno per rivoltarsi contro di voi».

 

Tra gli errori commessi dal Pakistan, cui fa riferimento Hussain, c’è anche l’aver aiutato un gruppo comparso più o meno dal nulla, i talebani, a conquistarsi in un tempo record Kabul e quasi tutto l’Afghanistan. Non è la prima volta che a qualcuno viene in mente un paragone del genere tra Pakistan e Turchia: Robert Fisk, decano degli esperti di Medio Oriente, ne scriveva nel lontano settembre del 2012, quando in molti non si erano ancora accorti del crescente ruolo di al Qaeda e soci nella guerra siriana.

 

Dal 2012 a oggi il confronto tra l’Afghanistan degli anni Novanta e la Siria di oggi si è arricchito di una presenza ingombrante, quella dello Stato islamico. Dopo la conquista di Mosul da parte dell’Isis, il giornalista pachistano Ahmed Rashid, tra i più profondi conoscitori al mondo della vicenda dei talebani, scrisse un articolo in cui per primo definiva i miliziani dello Stato islamico «i nuovi talebani». Come gli “studenti” guidati dal mullah Omar, anche gli uomini di al Baghdadi hanno puntato tutto sulla conquista territoriale: nel giro di pochi mesi (come accaduto per l’Isis) sono riusciti a conquistare una regione di dimensioni impressionanti per la loro scarsa consistenza numerica (i talebani delle origini erano poco più di ventimila, i soldati dell’Isis, nel 2014, erano circa la metà).

 

Kabul, 1996

Gli storici scrivono che lo studio del passato aiuta a liberarsi dall’idea di dover seguire le tracce dei propri avi, e a non ripeterne gli errori. Ma pare che l’Afghanistan di vent’anni fa sia stato dimenticato in fretta. A ripercorrere quegli eventi, la lista degli errori che si ripetono è davvero notevole.

 

Non serve neppure tornare agli anni Ottanta, quando – mentre gli Stati Uniti finanziano la guerriglia anti-sovietica – i sauditi favoriscono la diffusione dell’ideologia radicale wahhabita, nata nella penisola arabica, nelle scuole coraniche di Afghanistan e Pakistan, che provengono da una tradizione islamica diversa e meno incline alla violenza.

Partiamo invece dal 1994. Fino a quell’anno nessuno aveva sentito parlare del mullah Omar, uno sconosciuto chierico di Kandahar. L’Afghanistan è in piena guerra civile. Omar lancia una crociata “morale” contro il decadimento dei costumi: fa rinchiudere le donne in casa e perseguita i musulmani che ritiene eretici, come gli sciiti. Il Pakistan lascia che migliaia di studenti varchino le frontiere per unirsi ai mullah di Kandahar, che nel giro di pochi mesi conquistano un bel pezzo dell’Afghanistan meridionale.

 

Ma arrivare a Kabul è un’altra storia. Le milizie fedeli al governo centrale sono guidate da Ahmad Massoud, il “leone” che per anni ha fermato l’avanzata sovietica nel Panshir. Un islamista anche lui, un mujahed. Ma i talebani, più che soldati, si sentono castigatori dei peccati altrui. Massoud li ferma alle porte della capitale. Rimangono lì per mesi, senza riuscire ad avanzare. Poi, qualcosa si sblocca.

 

Pakistan e Arabia Saudita stanno aiutando pesantemente i talebani. Ahmed Rashid – nel suo libro del 2001 che per primo raccontò quella storia – documenta un sostegno fatto di denaro, armi, veicoli, infrastrutture stradali e nel campo delle telecomunicazioni. Perché questo aiuto? Gli studenti coranici, fortemente anti-sciiti, sono visti come un argine contro l’influenza iraniana (Iran e India, dal canto loro, aiutano massicciamente il governo di Kabul).

 

I pachistani e i sauditi sono i principali alleati dell’America nella regione. E l’amministrazione Clinton li lascia fare. Anzi, ci mette del suo. «Certamente i talebani appaiono utili alla politica americana che cerca di isolare l’Iran», scrive la Reuters nell’ottobre 1996. Intanto la Russia è prostrata per la crisi economica e il disastro della sua classe dirigente: bisogna approfittarne e «rompere il monopolio russo» in Asia centrale, spiegano funzionari americani citati da Rashid. In concreto – il giornalista lo racconta con dovizia di particolari – proprio in quel 1996 Washington sta sostenendo il tentativo di una compagnia energetica americana, la Unocal, di strappare l’Afghanistan alla concorrenza internazionale costruendo un gigantesco e ambizioso gasdotto.

 

Non ci sono solo le questioni economiche: «Alcuni diplomatici americani – scrive ancora il giornalista pachistano – vedevano [i talebani ndr] come messianici benefattori, una sorta di cristiani convertiti della Bible Belt americana. Alcuni diplomatici statunitensi immaginavano che, nella sostanza, i talebani avrebbero assecondato gli scopi americani in Afghanistan, “eliminando droga e banditi”, come diceva un diplomatico».

 

Le date sono impressionanti: a marzo l’ambasciatore americano in Pakistan, Tom Simmons, fa infuriare la premier Benazir Bhutto chiedendole di appoggiare il progetto della Unocal. Per lo stesso motivo la vicesegretario di Stato Robin Raphel ad aprile è in Pakistan e in agosto in Afghanistan. A luglio il capo dei servizi segreti sauditi, il principe Turki bin Faisal (che occupa quella posizione dal 1977 e si dimetterà solo il primo settembre 2001, appena prima dell’attacco alle Torri gemelle) visita Islamabad e Kandahar. L’attacco a Kabul ormai è deciso.

 

Il 25 agosto 1996 i talebani attaccano a sorpresa Jalalabad, una città a est di Kabul, al confine col Pakistan. A loro si uniscono migliaia di volontari pachistani. Da lì puntano sulla capitale, che cade il 26 settembre. In un mese i talebani si sono presi il cuore dell’Afghanistan. Massoud si rifugia al nord e continua la resistenza, ma il Paese che per dieci anni ha respinto l’invasione sovietica è ormai in mano al mullah Omar e ai suoi sponsor.

 

In un primo momento gli Stati Uniti pensano addirittura di riconoscere il nuovo governo, come fatto da Pakistan e Arabia Saudita. Ci vorranno più di due anni perché l’America scopra i talebani come nemico, all’inizio del 1999. Nel frattempo il governo talebano di Kabul ha lasciato fallire il progetto di gasdotto Unocal. Il saudita Osama bin Laden, ospite del mullah Omar dal 1996, è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E i rapporti tra Washington e Teheran – dove è diventato presidente il moderato Mohammad Khatami – sono entrati in una fase di relativa distensione. Ma ormai il disastro è compiuto. Nel 2001 i talebani vengono additati come i responsabili “in solido” dell’11 settembre.

 

Perseverare nell’errore

Vent’anni dopo, molti di quegli errori sono stati già ripetuti. Nel caos siriano, le potenze sunnite della regione hanno sostenuto una quantità di gruppi estremisti per le loro credenziali anti-sciite. Tra questi anche al Qaeda in Iraq, un gruppo che fino al 2011 pareva ormai scomparso. Nell’aprile del 2013 Abu Bakr al Baghdadi, il capo del gruppo, annuncia di voler estendere la propria sovranità anche sulla al Qaeda siriana (nota come Jabhat al Nusra, nata grazie al sostegno di al Qaeda in Iraq), fondando lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (l’Isis). Nel giugno 2014, con una manovra a sorpresa sui due lati del confine, l’Isis conquista nel giro di poche settimane una buona fetta di Iraq del Nord.

 

Tra allora e oggi sono molte le differenze significative: la Siria non somiglia neppure un po’ all’Afghanistan; l’America di Obama non è quella di Clinton; la Russia di Putin non è quella di Eltsin. Non è detto che il destino della nuova guerra sia lo stesso della vecchia. La storia non si ripete mai allo stesso modo. Gli errori a volte sì.

 

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