Il Labour e il Medio Oriente: com'è lontano Blair
Tempo di lettura: 3 minutiEra stata la prima delle (molte) sorprese nei giorni in cui l’attacco americano alla Siria sembrava inevitabile: il Labour, il partito che era stato di Tony Blair, votava no all’intervento della Gran Bretagna contro Assad, riuscendo a frenare l’attivismo del premier David Cameron. Era la fine di agosto, e nei giorni successivi ci si chiedeva se la “svolta” laburista fosse solo frutto di un calcolo politico di breve periodo, per mettere in difficoltà i conservatori, o piuttosto il segno di un approccio nuovo alla politica estera. Gli indizi che si sono accumulati nell’ultimo mese e mezzo puntano tutti in direzione dell’ipotesi che il Labour sia ormai un partito diverso da quello che promosse e sostenne la guerra in Iraq nel 2003.
Il premier Cameron, in un primo tempo, ha provato quasi a ignorare il voto del parlamento di Westminster. Al G20 è stato tra i più attivi nel tentativo di ottenere il sostegno più ampio possibile per l’intervento franco-americano. Il risultato? Quando Russia e Stati Uniti hanno trovato un’intesa sulla distruzione degli arsenali chimici di Assad, e Obama ha rinunciato all’uso della forza, il governo inglese si è trovato spiazzato. Improvvisamente la linea dell’opposizione laburista – fermare le armi chimiche, ma solo con il sì dell’Onu – risultava vincente anche sul piano internazionale.
In un editoriale del Guardian, quotidiano “progressista”, Miliband è stato addirittura tratteggiato come l’artefice «indiretto» della svolta americana sulla Siria: «Capita di rado che la scelta di un leader dell’opposizione in una piccola isola possa avere tali conseguenze». Senza bisogno di esagerare il ruolo di Ed Miliband, è vero che dopo quella decisione il capo del Partito laburista ha guadagnato una credibilità di cui non aveva mai goduto prima.
Non a caso Miliband ha rivendicato la sua presa di posizione, in uno dei passaggi chiave del suo discorso al Congresso del partito, a fine settembre. Negli ultimi giorni, poi, il Labour sta facendo pressione sul governo perché vengano riaperti al più presto i canali diplomatici con l’Iran del nuovo presidente Hassan Rouhani.
I rivali di Miliband non hanno tardato ad accorgersi della forza rinnovata della sua leadership. La scorsa settimana il quotidiano conservatore Daily Mail ha lanciato un durissimo attacco contro di lui, e lo ha fatto prendendo come bersaglio suo padre Ralph Miliband, morto vent’anni fa, ebreo di origini polacche fuggito alla persecuzione nazista. L’articolo – firmato da un altro ebreo, Geoffrey Levy, anche per schivare l’accusa di “antisemitismo” – rinfaccia a Miliband padre di essere rimasto marxista e socialista fino alla fine dei suoi giorni, ma anche (ed è l’accusa più grave, agli occhi dell’autore) di «non amare» il Paese che lo aveva accolto, la Gran Bretagna: Ralph Miliband infatti se l’era presa in diverse occasioni (tra cui la guerra delle Falkland) col «rabbioso nazionalismo» e l’«imperialismo» degli inglesi. E mentre l’altro dei fratelli Miliband, David, ha rinnegato le tesi del padre, il minore dei due, Ed, è il vero erede della tradizione di famiglia.
L’attacco però si è trasformato in un boomerang: il leader laburista è intervenuto in difesa del padre, guadagnandosi il plauso e la solidarietà di gran parte dell’opinione pubblica. E lunedì scorso si è presentato più forte che mai all’appuntamento (programmato da mesi) del “rimpasto” nel governo-ombra, la squadra di politici laburisti incaricati di elaborare politiche alternative a quelle dei ministri in carica.
La sostituzione del ministro-ombra per la Difesa è forse il gesto più eloquente: fino a lunedì il posto era occupato da Jim Murphy, “blairiano” e fedelissimo di David Miliband, che aveva criticato pubblicamente il no del suo partito all’intervento in Siria. Al suo posto Miliband ha voluto il più “affidabile” Vernon Coaker. Un segnale, un altro, che il Labour vuole proseguire sulla linea della diplomazia.