Obama e la sconfitta del messianismo
Tempo di lettura: 3 minuti«Credevo fosse un profeta. Mi sono reso conto che è solo un re». Il linguaggio è quello colorito dei neri americani, ma il messaggio è semplice. Barack Obama è un politico (il più pragmatico della recente storia americana), non un Messia sceso dal cielo, spiega un elettore democratico a Gary Younge del quotidiano The Guardian. La vittoria di martedì scorso – commenta il giornalista – è addirittura «più impressionante» di quella del 2008. Quattro anni fa molti americani avevano votato sulla scia dell’entusiasmo. Stavolta – come ha scritto lo storico Francis Fukuyama sul Corriere della Sera di mercoledì – «servono riforme, non il Messia».
Non era un esito scontato: contro il presidente correva un partito sempre più incline a raccontare lo scontro politico in termini escatologici. Obama è l’Anticristo – urlava la destra evangelica in campagna elettorale – la sua vittoria è un passo in direzione della fine dei tempi. Il Partito repubblicano non è solo destra cristiana, certo. Ma uno come Ron Paul, della componente più secolare del Grand Old Party, trova via via meno spazio in uno schieramento che «sta diventando sempre meno un partito tradizionale e sempre più un culto apocalittico» (parole dell’ex repubblicano Mike Lofgren, citate da Alessandro Carrera lunedì scorso sul quotidiano Europa).
Obama come l’Anticristo oppure Obama come il Messia: se la campagna elettorale si fosse ridotta a questa contrapposizione, sarebbe stato un segnale davvero preoccupante sullo stato di salute della società americana. Le cose sono andate diversamente. Lo si è visto anche nel comportamento delle varie comunità religiose nei seggi elettorali.
I cattolici, ad esempio. Non è un mistero che una parte della gerarchia abbia contestato alcune scelte politiche di Obama in nome dei “principi non negoziabili”, a cominciare da certe norme della riforma sanitaria riguardanti la contraccezione. Ma lo stesso presidente della Conferenza episcopale americana, il cardinale Timothy Dolan, ha dato il segnale che la Chiesa non considerava queste elezioni una sorta di crociata tra le forze del bene e quelle del male, partecipando sia alla convention repubblicana che a quella democratica. Alla fine l’elettorato cattolico si è diviso tra i due partiti, con una prevalenza del voto obamiano (51% a 48%), trainata dalla crescente forza numerica degli immigrati ispanici. Una diversità di scelta che appartiene alla «libertà dei figli di Dio», per dirla con le parole della Gaudium et spes.
Un discorso simile vale per il voto degli ebrei americani. Alcuni grandi finanziatori repubblicani, legati alla destra israeliana, avevano messo in piedi una massiccia campagna per raccontare Obama come l’uomo che avrebbe portato alla distruzione di Israele. L’Opa per traghettare il voto ebraico, tradizionalmente democratico, verso Mitt Romney è però fallita. Sette ebrei su dieci hanno scelto Obama, una percentuale simile a quella di quattro anni fa.
Più della propaganda apocalittica hanno contato i fatti concreti. Il salvataggio dell’industria dell’auto, la ripresa – pur lenta – dell’occupazione, la riforma della sanità. Otto anni fa Karl Rove, cervello della svolta neo-con del Partito repubblicano, spiegava al giornalista Ron Suskind che la gente comune «vive in quella che noi chiamiamo la reality-based community», la comunità di quelli che osservano la realtà. Questa comunità – diceva Rove – sarebbe stata sconfitta da quelli come lui, che «si creano la propria realtà» e «fanno la Storia». Stavolta, però, la reality-based community ha prevalso.