1 Luglio 2013

Siria, se Russia e Turchia ricominciano a parlare

Siria, se Russia e Turchia ricominciano a parlare
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Qualcosa si muove sul fronte della diplomazia, nella complicata trattativa sulla guerra civile in Siria. Di mezzo c’è il ruolo della Turchia, che fino ad oggi è stata uno dei principali sponsor dei ribelli, impegnata a fornire sostegno militare e politico alle principali sigle dell’opposizione a Bashar al Assad.

I primi a segnalare un possibile riposizionamento del governo di Recep Tayyip Erdogan sono stati gli autori di Debka.com, un sito considerato vicino ai servizi di sicurezza israeliani. Secondo Debka il presidente americano Barack Obama, nel corso del suo ultimo viaggio in Germania, sarebbe stato raggiunto da una telefonata di Erdogan. Il governo americano aveva appena annunciato, alla vigilia del G8 in Irlanda del Nord, di essere pronto a inviare armi ai ribelli siriani. Il premier turco, però, nella telefonata del 19 giugno ha informato Obama che la Turchia non è disponibile a fare da «corridoio» per le armi americane dirette al fronte anti-Assad.

Erdogan sembra voler ripetere – commenta Debka – la decisione presa nel lontano 2003, quando negò alle truppe americane di passare dalla Turchia «per aprire un secondo fronte contro Saddam Hussein», all’esordio della guerra in Iraq.

Quella del premier turco è una decisione sorprendente, se si considera che finora gran parte delle armi dei ribelli sono arrivate proprio dalla Turchia. Erdogan però avrebbe spiegato al presidente americano di essere preoccupato per la «reazione» della Russia: all’ultimo G8, infatti, Vladimir Putin ha spiegato a Obama di essere assolutamente contrario alla scelta americana ed europea di armare l’opposizione siriana, all’interno della quale agiscono diversi gruppi legati allo jihadismo internazionale.

La notizia è stata rilanciata giovedì scorso, 27 giugno, dall’ex funzionario del Sismi Pio Pompa – noto alle cronache italiane per lo scandalo delle intercettazioni Telecom – sulle colonne del Foglio. L’articolo di Pompa aggiunge un dettaglio: oltre al timore per la reazione di Mosca, Erdogan avrebbe deciso di chiudere le frontiere alle armi americane anche in seguito al «tradimento» che si è consumato nel corso delle manifestazioni di piazza dell’ultimo mese in Turchia. Il premier turco si sarebbe sentito abbandonato dai suoi alleati occidentali, che invece di appoggiarlo si sono schierati dalla parte dei manifestanti, chiedendo al governo di Ankara di accogliere le loro richieste (tra queste anche le dimissioni di Erdogan).

Le fonti citate sono legate ai servizi segreti e vanno lette con le cautele del caso. Ci sono altri segnali, però, che sembrano confermare che ad Ankara si sta muovendo qualcosa. Lo stesso 27 giugno il Cremlino ha fatto sapere che Erdogan ha alzato la cornetta per chiamare il collega Putin: al centro della conversazione, anche stavolta, c’era la Siria. Secondo il comunicato, i due leader si sono trovati d’accordo sulla necessità «di coordinare i loro sforzi in direzione di una soluzione politica della crisi».

Il giorno prima i loro ministri degli esteri, Ahmet Davutoglu e Sergei Lavrov, avevano concordato di incontrarsi appena possibile per parlare a quattr’occhi di Siria, la prossima settimana, al margine di un vertice regionale in Brunei.

Il giro di telefonate sembra chiudere una lunga fase in cui i rapporti tra Turchia e Russia sono stati tutt’altro che cordiali. Una fase che ha visto le due potenze – quelle che in passato venivano chiamate la Seconda Roma, Istanbul, e la Terza Roma, Mosca – impegnate ad armare le due parti del conflitto, ribelli e lealisti, nel tentativo magari di aumentare la propria influenza sulla Siria e sul tutto il Medio Oriente. A partire dall’estate del 2011, dopo la sua terza vittoria elettorale, Erdogan sembrava aver abbandonato quella politica di mediazione che aveva caratterizzato le sue prime due legislature al potere. Per due anni Erdogan ha messo da parte l’ambizione di fare da “ponte” tra Oriente e Occidente, tra America e Iran, Europa e Russia, rispolverando, insieme all’interventismo sulla Siria, un retorica nazionalista e neo-ottomana che per qualche anno era sparita dal discorso pubblico in Turchia.

Per questo il riferimento alla «soluzione politica della crisi», nella telefonata tra Erdogan e Putin, suona particolarmente importante. In settimana l’inviato dell’Onu per la Siria, Lakhdar Brahimi, ha fatto sapere che la conferenza di pace “Ginevra due” – prevista prima per giugno e poi rinviata a luglio – sicuramente non si svolgerà prima di agosto. Molti osservatori iniziano a temere che l’incontro venga rinviato alle calende greche, e non veda mai la luce.

La riuscita della conferenza di pace dipende molto dalla capacità dei diversi attori internazionali di “ammorbidire” le loro controparti siriane. Che Russia e Turchia riprendano a dialogare può rappresentare un buon punto di partenza.

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